Mario Martone ha definito il suo ultimo film, Nostalgia, neorealista “per facce e luoghi”: agli attori professionisti, nei pochi ruoli principali, si affiancano infatti gli abitanti del Rione Sanità, dove si svolge per intero e dal vero la storia del doloroso e al tempo stesso estatico ritorno del protagonista Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) al suo quartiere d’origine, un mondo a parte all’interno di Napoli, dopo un volontario esilio all’estero durato quarant’anni che lo ha reso uno straniero. Si tratta però di una particolare forma di realismo, il cui precedente potrebbe essere individuato in Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, altro film in cui Napoli e i suoi abitanti diventavano parte di un viaggio che Ingrid Bergman – anche lei una straniera – faceva all’interno di sé stessa. Martone, tuttavia, va oltre, approdando per sua stessa ammissione al mito, col beneplacito di Ermanno Rea, autore del romanzo omonimo (2016) da cui il film è tratto: «Tutto è produzione di mito in questo mio quartiere. Viviamo di ombre, come si addice a una terra di sepolture. Di sepolture e di sogni».
Il Rione Sanità sorge infatti su un enorme cimitero: la necropoli greco-romana prima, le catacombe cristiane poi, infine il cimitero delle Fontanelle, dove si conservano migliaia di teschi delle “anime pezzentelle”, poveri morti di peste o di colera rimasti privi di sepoltura. Come scrive ancora Rea, «non a caso la Sanità è chiamata anche la Valle dei morti». Su questo reame di morti – e dove anche molti vivi sono “anime morte” – regna un camorrista, Oreste Spasiano (Tommaso Ragno), che, come il dio dell’Ade, scaramanticamente non può essere nominato direttamente, ma solo tramite il suo attributo: “o Malommo”. A differenza del romanzo, in cui Spasiano ha tutta l’apparenza del decoro borghese, Martone gli dà anche l’aspetto di una creatura mitica: come nell’iconografia classica di Ade, è cupo in volto, con la barba incolta, lunghi capelli spioventi e quando cammina per le strade del rione per non farsi riconoscere porta “l’elmo dell’invisibilità”, ossia il cappuccio della felpa calato in testa. Ma Spasiano è anche un Minotauro che si aggira in una casa fatiscente e labirintica tanto quanto il quartiere stesso, al quale chiede i sacrifici umani dei suoi figli, destinati a essere assoldati o uccisi.
Osa contendergli il potere solo un sacerdote, don Luigi Rega (Francesco Di Leva), nel quale Rea ritrae fedelmente il suo amico don Antonio Loffredo, il vero parroco di Santa Maria della Sanità. Vediamo il sacerdote andare casa per casa a strappare le anime a quello che chiama “il mio nemico”. Come nella preghiera della messa di Pasqua, «Morte e Vita si affrontano in un prodigioso duello» – e infatti Martone ha ammesso il suo debito anche con il genere western – ma l’esito è quanto mai incerto. Il regista ce lo suggerisce visivamente con lo stato della chiesa, che più che una fortezza sembra un cantiere con lavori in corso: la salvezza è in costruzione, la fine dell’impresa è lontana e per niente scontata, il presente è fatto di lavoro duro.
In questa lotta si inserisce Felice, che torna al Rione Sanità per la malattia della madre (Aurora Quattrocchi) e che dopo la sua morte decide di restare per «la faticosa riconquista del passato perduto» (Rea), ripercorrendone i luoghi: una riconquista che Martone ci mostra anche col mettere, nel corso del film, progressivamente sempre più a fuoco lo sfondo delle vie in cui si muove il protagonista. Felice, da adolescente, era stato compagno di scippi di Oreste e poi si era ritrovato anche complice di un delitto, tanto da decidere di fuggire all’estero per lavorare con uno zio e cancellare perfino dalla memoria la sua vita precedente. Ex adepto dell’Ade, si è nel frattempo “costruito un’anima” (Rea); tutta la parte del film dedicata al rapporto con la madre ci dà la misura di quanto sia cambiato Felice, dal giovanile “darle cure”, ossia preoccupazioni, come lui stesso ripete più volte, al prendersene amorevolmente cura. Similmente rivelatrice di questo cambiamento è anche una scena, non presente nel romanzo, ambientata nel cimitero delle Fontanelle, luogo che compare anche in Viaggio in Italia. Qui Felice va per ottenere la grazia di avere un figlio, desiderio che aveva sempre represso a causa del suo passato oscuro, circostanza che nel film si intuisce, mentre è esplicitamente detta nel romanzo. Dal subire passivamente il peso della sua colpa, vediamo Felice passare ora a un attivo desiderio di riparazione: al cranio sfondato dell’uomo ucciso da Oreste con la sua complicità, si sostituisce ora il teschio di un’anima pezzentella, che Felice poggia delicatamente su di un cuscino e spolvera con il suo fazzoletto, seguendo il rituale della religiosità popolare. La metamorfosi è siglata dal suo avvicinamento a don Luigi – conosciuto in occasione del funerale della madre – e alla sua comunità.
Felice, però, vorrebbe militare nell’esercito del Bene senza rinnegare completamente l’antico e profondo legame d’amicizia con Oreste e per questo insiste per incontrarlo. Tra Bene e Male, però, tertium non datur, e così Felice diventa una vittima predestinata. Ma quello che potrebbe sembrare il frutto dell’ingenuità del protagonista, è un’estrema forma di cura rivolta al passato, nuovamente presente attraverso i flash-back dei momenti felici vissuti con Oreste. Solo nei ricordi di Felice, infatti, vive ancora il barlume dell’umanità del Malommo, della potenzialità di un’altra vita che l’uno ha potuto avere, andandosene, e che all’altro è rimasta preclusa. E che lo sarà per sempre, dopo la morte di Felice proprio per sua mano.