Non si può negare che il valore della testimonianza consista nel suo perdurare in un mondo nel quale essa appare del tutto inutile, in un mondo che, proprio per non averne voluto o saputo valorizzare il messaggio, ricade costantemente negli stessi errori. Il conflitto russo-statunitense in corso, stavolta con epicentro in Ucraina, è una nuova e dolorosa conseguenza di questa sottovalutazione. Si tratta del confronto muscolare, ora non più ideologico, del braccio di ferro che dura da quasi ottant’anni, a cui parti sempre più ampie di umanità, come da una instabile balconata planetaria, è costretta ad assistere con crescente trepidazione.
Comunque sia, al di là delle tristezze del presente, la testimonianza non è solo ammonimento per gli errori commessi in passato: è anche rilevamento degli aspetti positivi che da quegli stessi errori si possono trarre. Possibilità che per un certo periodo, ad esempio quello immediatamente successivo «all’apertura dei cancelli di Auschwitz» – scrive Alberto Cavaglion nel suo recente saggio Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, uscito nel 2021 per i tipi della add –, i superstiti sembrarono essere stati capaci di sfruttare. Un periodo nel quale, proprio per la straordinaria resilienza, egli riconosce un’«età aurea», anche solo per differenziarlo dagli anni successivi, durante i quali l’inflazione di memorialistica ha finito col rimuoverne le potenzialità. Alla base di questo periodo aureo e resiliente lo studioso scorge non una enigmatica teoria letteraria qualsiasi, ma una vera e propria filosofia: una filosofia che definisce del ciononostante, perché si ispira a un passo della mahleriana Morte a Venezia di Thomas Mann, e che, tra gli altri, ha ispirato lo stesso Primo Levi, il quale, com’è noto, aveva una predilezione per questo scrittore e per la cultura tedesca in generale. «Nonostante la sofferenza patita, la speranza domina l’abominio» (corsivo nostro): così Cavaglion sintetizza questa filosofia, evocando forse le parole, da altri eccessivamente criticate, della giovane Anne Frank – nome simbolico di uno sterminio a cui ancora molti si richiamano “nonostante” le palpitanti giornate e i treni affollati della memoria, anche solo per il puro e inconsapevole piacere di offendere questa specifica memoria.
Egli ha inoltre ragione quando insiste sul fatto che una tale filosofia non è affatto «un’invenzione del XX secolo» né tanto meno «una scoperta della postmodernità». Le radici di questa filosofia del non-ostante, del superamento o della negazione (non-) degli ostacoli che ostano, sono in effetti tanto profonde quanto lo è la stessa cultura umana. Si possono rintracciare esemplarmente sia nel testo biblico (si pensi al Libro di Giobbe, nel quale peraltro Margarete Susman leggeva il destino del popolo ebraico, o agli stessi Vangeli, che hanno il loro fondamento nel rapporto crocifissione-resurrezione) sia nel De rerum natura di Lucrezio (in particolare l’ultimo libro, anche se il poeta latino è uno dei pochi rappresentanti, forse l’unico, di quella cultura che, come si nota sin dal primo libro, non ha bisogno, come la religione giudeo-cristiana, la stessa tragedia greca, come Dante e Boccaccio o come la filosofia hegeliana, di premettere l’ostacolo, la prova, la negazione o il negativo al preciso scopo di superarlo in un positivo, anche perché naturalmente questo positivo alla fine non si dà mai, se non, direbbero Levi, Wiesel e Girard, come una «happy-end», una «success story» hollywoodiana). Quelle radici si possono reperire inoltre sia per l’appunto nella Divina commedia (nella quale il sommo poeta non può teo-poetologicamente rinunciare all’anteriorità del negativo infernale) sia nel Proemio del Decameron (con la terribile descrizione della peste di Firenze, messa lì apposta affinché un male naturale potesse relativizzare un male morale) sia infine in Leopardi (il quale in due canti temporalmente contigui propone due ontologie e due prospettive esistenziali opposte: quella del piacer figlio d’affanno e quella rappresentata dall’ottimismo fiducioso e contagioso del legnaiolo).
Pur con tutte le riserve del caso, queste radici sono in parte anche quelle in cui si riconosce Primo Levi, il quale, come ha confessato nell’ Appendice del 1976 a Se questo è un uomo, malgrado tutto, ciononostante appunto, considerava il suo periodo di deportazione ad Auschwitz la sua “università”. Come si è detto, infatti, quella filosofia, secondo Cavaglion, «si afferma all’indomani dell’apertura dei cancelli di Auschwitz». E quando si parla di male assoluto, di male radicale, di male come unicum della storia, vale a dire di un negativo che, in quantità e in qualità, racchiude in sé tutti gli altri negativi, non si può non pensare ad Auschwitz. Senza scomodare sempre il testimone torinese, per rendersene conto sarebbe sufficiente leggere le terribili testimonianze del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau raccolte nel 1999 da Gideon Greif (Wir weinten tränenlos…), da cui nel 2015 il regista ungherese Lásló Nemes ha tratto il film Il figlio di Saul.
Qui, tuttavia, proprio alla luce della filosofia del nonostante, ci si deve intendere bene sul senso del negativo. Poiché una cosa è il senso che i contadini siciliani, ricordati da Cavaglion, colgono nel negativo della lava che periodicamente scende a valle; una cosa è affrontare e battersi stoicamente contro il negativo naturale – lo Sterminator Vesevo e la tempesta leopardiani (lasciamo da parte il diluvio universale), l’epidemia tucididea di Atene su cui riflette Lucrezio sulla scorta del maestro Epicuro –; una cosa, si potrebbe ancora aggiungere riportando l’immagine cara a Machiavelli, a Vico, a Burckhardt e quindi anche a Nietzsche, del fiume o del torrente che periodicamente inonda e distrugge i bei campi coltivati dagli alacri contadini; altra cosa ancora è invece il negativo inteso come il male assoluto di Auschwitz. Quest’ultimo, infatti, non è un dato della natura, ma un prodotto scientificamente e razionalmente approntato e realizzato dall’uomo sull’uomo.
Certo, i due sensi sono accomunati da un “positivo” pedagogico, perché, fatte le dovute differenze, da entrambe le esperienze l’essere umano, come si è visto, può trarre un positivo, un insegnamento, cioè, appunto una filosofia del nonostante. Ma anche qui occorre fare attenzione e distinguere bene. Giacché una cosa è apprendere dalla natura materna e matrigna, altra cosa è apprendere dall’uomo che patrignamente si sostituisce alla natura per decidere sulla vita e sulla morte dei propri simili. E siccome, al di qua di ogni idealismo, è dalla natura che l’uomo apprende, allora, seguendo questo approccio, questo modello di apprendimento naturale, se lo scopo primario della modernità diviene quello di essere sempre più competenti (Sapere è potere), allora non si deve più attendere che sia la natura, con i suoi tempi lunghi e con il suo costitutivo non poter fare salti, a fornire il negativo: lo si può riprodurre artificialmente, sperimentalmente, e quindi anticipare a piacere. Ne consegue che quanto più il negativo o il male sarà radicale, tanto più ampia sarà anche la conoscenza che l’uomo può trarne; quanto più il sapere è artificiale, tanto maggiore sarà il potere, la potenza che se ne potrà ricavare e accumulare. È proprio a questo aumento di potenza esponenzialmente illimitato che Nietzsche si riferisce con la sua nozione di volontà di potenza.
Il riferimento a Nietzsche qui pertanto non è meramente aggiuntivo, ma sostanziale e necessario, poiché se vogliamo risalire a una delle radici ad un tempo più robuste, profonde e velenose della filosofia del ciononostante dovremmo andare a rileggere il frammento 477 di Umano, troppo umano, là dove, in barba al Principe machiavelliano, alla Scienza nuova vichiana e forse allo stesso Jacob Burckhardt, egli, in perfetta sintonia con l’idealismo tedesco, che vede nel Negativ il motore della storia, non ha alcuna remora nell’auspicare per l’umanità indebolita di fine Ottocento delle «guerre più grandi e terribili» o, peggio ancora, delle «temporanee ricadute nella barbarie» (zeitweiliger Rückfälle in die Barbarei).
Cambia pertanto il senso pedagogico della filosofia del ciononostante se il ciò che fa da ostacolo all’uomo non dipende dalla necessità naturale, ma viene invece generato opportunamente dall’uomo allo scopo di avvalersi di tutti quei vantaggi pedagogici ed etici che si possono ricavare da una premeditata esperienza del negativo. A tal proposito, in un densissimo saggio del 2008, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, lo storico Emilio Gentile parla di «eticità della guerra» e coglie proprio in questo Nietzsche uno dei riferimenti culturali cui si ispirarono molti di coloro che caddero in battaglia, e che, illudendosi, credettero nel fatto che l’esperienza volutamente crudele compiuta già nel primo conflitto mondiale, ossia con un ciò, con un motus negativo preventivamente provocato (l’eccidio di Sarajevo), dovesse necessariamente, il che vuol dire dialetticamente, produrre quell’aumento di forza e di potenza cui accennava il filosofo dell’Übermensch in quel terribile frammento (non a caso riportato anche da Mann nelle Considerazioni di un impolitico e certo spiritualmente presente nelle jüngeriane Tempeste d’acciaio.
Inoltre l’artificiosità di questa esperienza del negativo o di questo ciò, vale a dire dell’ostacolo opportunamente predisposto e realizzato dall’uomo, muta radicalmente sia l’essenza della componente di violenza che esso necessariamente contiene, sia soprattutto l’atteggiamento dell’uomo di fronte ad essa. La violenza che si sprigiona dalla natura – dall’eruzione di un vulcano, da un terremoto, da un’inondazione e per certi versi anche da una pandemia – viene intesa e vissuta come una forza di cui si è costretti a prendere atto e nella quale è possibile cogliere perfino opportunità di miglioramento per l’uomo. Questo ritenevano non solo Machiavelli e Vico, ma anche Aschenbach-Mann (il Mann non ancora, quasi o forse già “impolitico”) con i suoi stessi interpreti che Cavaglion indica nelle note al testo. E con Aschenbach anche, almeno inizialmente, gli stessi reduci dai Lager. Ma quando quella forza distruttiva non è più frutto della natura, bensì dell’arrogante arbitrio dell’uomo, frutto della sua hybris, allora quella violenza viene vissuta e subita come crudeltà, i cui effetti, come si è visto con le due guerre mondiali, specie con gli stermini di massa realizzati dalle politiche razziali e dalle pulizie etniche, risultano devastanti per buona parte del genere umano e per la sua stessa cultura, almeno per il semplice fatto che proprio essa, questa cultura europea, contraddistinta dalla passione per il genocidio, sottolineano Mosse e Bensoussan, conteneva già le premesse di quelle politiche razziste ed eliminazioniste. Risulta allora assai difficile, se non impossibile ritenere che in quella devastazione prodotta dalla crudeltà si possa cogliere un’opportunità di crescita per l’uomo. I quasi ottant’anni di guerra fredda sono purtroppo ancora oggi lì a dimostrarlo. Da qui, da questa impossibilità di cogliere un positivo dal negativo, come pur accade con l’esperienza della violenza naturale, il disagio vissuto dai superstiti dell’Olocausto: «dalla violenza [artificiale] non nasce che violenza» ammoniva Levi nella Conclusione de I sommersi e i salvati. Ed era proprio questo profondo disagio esistenziale e culturale che Jean Améry intendeva esprimere, forse in contrapposizione allo stesso Levi, suo compagno di campo, quando sosteneva che «ad Auschwitz, non siamo diventati più saggi, se per saggezza s’intende una conoscenza positiva del mondo: nulla di quanto comprendemmo nel Lager non avremmo potuto comprenderlo anche fuori» (corsivo nostro), e che l’unica cosa che egli aveva appreso ad Auschwitz III Monowitz era che lo spirito era solo un ludus e che gli uomini, prima di entrare in Lager, erano solo homines ludentes, uomini che si illudevano giocando il ludus, il gioco dello spirito, specie se dialetticamente inteso.
In ultima analisi, proprio perché dispone in qualche modo all’ottimismo, la violenza naturale si può ritenere alla fine persino utile, e su questo valore dell’utilità si può certo fondare anche una filosofia del ciononostante. Ma la violenza artificiale, quella cioè voluta e perpetrata dall’uomo, non è altro che crudeltà, la quale a studiosi del Terzo Reich e della Shoah come Goldhagen e Hilberg è apparsa del tutto inutile da ogni punto di vista, da quello militare a quello economico. Eppure – ecco il nocciolo della questione – essa, proprio questa dannata e inumana crudeltà, che a molti appariva inutile (un «dolore superfluo» lo chiamava lo stesso Levi), era invece utilissima per i carnefici, perché solo confrontandosi con l’estremo, direbbe Todorov, con la barbarie e la disumanità delle proprie operazioni sterminatorie, pur essendo rivolte contro esseri deboli e indifesi (e per questo destando talora persino qualche perplessità nelle file della Wehrmacht), essi, come ripeteva loro il capo delle SS, sulla falsa riga di quel famigerato frammento nietzscheano, sarebbero diventati più forti, più duri, uomini veri, veri tedeschi, degni discendenti della razza germanica.