Maria Giudice

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L’altro giorno ho lasciato spento il televisore tutto il pomeriggio e anche la sera, per una volta non sentivo l’urgenza di soddisfare la bulimia che mi costringe a cercare ogni dettaglio di quel che succede (o ci dicono che succeda) nella guerra ucraina, e perfino di ascoltare le opinioni di esperti, presunti esperti, passanti e provocatori (questi ultimi in genere ottengono che io prema un tasto a caso del telecomando).

Il fatto è che stavo leggendo un libro apparentemente piccolo (140 pagine), estremamente denso di fatti e altri sentimenti, ma appunto tale da poterlo finire in una giornata, fino alla conclusione, che ti lascia nell’animo una scia di ricordi e rimorsi. La voglia di essere lei. Il bisogno di non essere lei. Si parla di Maria Giudice (che è anche il titolo del libro di Maria Rosa Cutrufelli, Giulio Perrone editore, 15 euro), una donna straordinaria, che ha avuto una vita straordinaria, e fra un compagno e l’altro ha avuto dieci figli, una dei quali era Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice purtroppo scomparsa, molto legata a Maria Rosa.

Maria Giudice, figlia di piccoli proprietari terrieri piemontesi, è il ritratto stesso della fine dell’Ottocento e dell’inizio del secolo nuovo, ma è anche molto di più (e più complicato). Una ragazza che studia dalle suore, nonostante i genitori repubblicani e garibaldini, poi va nella sola università concessa alle donne, quella magistrale, e infine esplode, nella sua cultura, stile di vita, orizzonti, e fa venire in mente il Marcello Mastroianni di I compagni (di Mario Monicelli), sindacalista errante e poverissimo, film basilare per l’educazione sentimentale (era il 1963) dei sessantottini, la generazione di ribelli del nuovo-nuovo secolo (secondo Immanuel Wallerstein fu allora che il Novecento terminò per lasciar posto a qualcos’altro). “Andare verso il popolo” a fine Ottocento significava mettersi nel mirino, letteralmente, della forza pubblica e dell’esercito (il famoso Bava Beccaris) e finire in galera, cosa che a Maria capitava regolarmente, solo per aver fatto un comizio o pubblicato una rivista. Così che, leggendo, ci si chiede quale forza d’animo inesauribile spingeva i socialisti, gli anarchici e poi i comunisti ad affrontare angherie e condanne e, nel caso, una pallottola. E si vede bene da che origini viene quel che chiamiamo “democrazia”, che non è stata un regalo, ma una terra dissodata palmo a palmo contro i prefetti e i padroni.

Ma Maria Giudice era una donna, doppiamente vessata e ostacolata, anche dalla “cultura barbuta” dei compagni. Tanto che la prima volta che rimase incinta e su di lei pendeva l’ennesimo mandato di cattura, si rifugiò dai compagni svizzeri e in casa di una rivoluzionaria russa, anzi ucraina, Angelica Balabanoff, e lì conobbe altri esuli, per esempio un russo destinato a diventare famoso, Lenin. E in casa di Maria e Angelica capitò, anche lui esule, stremato e affamato, un socialista di nome Benito Mussolini (e si dice che con Angelica concepì una figlia che poi fu adottata dalla moglie Rachele, Edda).

La “libera unione” (già che il matrimonio era un contratto incompatibile con la scelta di amarsi) di Maria con il compagno anarchico, terminò dopo sette figli con la scelta di lui: arruolarsi nella grande guerra, per combattere la barbarie tedesca (e una scelta analoga fece Mussolini, ma per denaro: i francesi gli fornirono i mezzi per aprire un giornale, Il popolo d’Italia, dopo che il futuro duce aveva diretto il socialista Avanti!). Nel frattempo, Maria era diventata la prima segretaria donna della camera del lavoro di Torino. Anche lei travolta dal furore popolare e dagli scioperi operai (le moltissime donne che erano state chiamate alle fabbriche per sostituire gli uomini mandati a farsi ammazzare al fronte) e condannata infine a tre anni di carcere insieme a un giovane Umberto Terracini e dopo aver diretto il giornale socialista in cui lavorava un altrettanto giovane Antonio Gramsci.

Ma non voglio raccontare la storia intera, il trasferimento in Sicilia, il suo compagno morto in guerra e il nuovo compagno, catanese e avvocato e anche lui socialista, e altri tre figli, ultima dei quali Goliarda. La cosa davvero importante è che è una donna a raccontare la vicenda di due donne, madre e figlia. Fosse solo, come pure è, la biografia puntigliosamente documentata di una socialista di quell’epoca, sarebbe interessante. E invece è emozionante, perché finalmente ho (forse) capito come debba essere una scrittura, una narrazione femminile, e femminista. È il modo di scrivere di Maria Rosa, così lieve e profondo insieme, perfino la scelta degli aggettivi, per lasciare trasparire, insieme alla storia che si racconta, le sensazioni (i profumi della Sicilia) e i sentimenti, molto al di là, o al di sotto, della “cultura barbuta” di cui si lamentava Maria Giudice parlando dei suoi compagni, del suo partito e del suo sindacato, di quel che avrebbe dovuto essere un mondo nuovo, il sol dell’avvenire. Così che si legge e si legge, e pare di sentire una voce gentile che non ha paura delle durezze della storia ma allo stesso tempo cuce le relazioni tra madre e figli, sorelle e fratelli, padre e figli, e un punto di vista sulla storia, quella di tutti noi, assai diverso, lasciando di quando in quando irrompere un “io”, perché questa è anche la storia di Maria Rosa, almeno del suo passato e dell’amicizia con Goliarda, due siciliane erranti. E alla fine resta la nostalgia di quel che eravamo, e avremmo potuto essere, noi ribelli di varie epoche.

Gli autori

Pierluigi Sullo

Pierluigi Sullo, giornalista dal 1974, prima con il “Quotidiano dei lavoratori”; dal 1977 e per 22 anni a “il manifesto” (di cui è stato vicedirettore durante la direzione di Luigi Pintor); dal 1999 e per dodici anni direttore del settimanale “Carta”, di cui è stato co-fondatore. Ha pubblicato diversi libri, tra i quali "Postfuturo", saggio sulla crisi della modernità, il libro collettivo "Calendario della fine del mondo" (2011) e il romanzo "La rivoluzione dei piccoli pianeti" (2018).

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