
La parola “teatro” è un passepartout che nel corso dei secoli è servito per realtà diversissime tra loro, anche fisicamente: da luogo per cerimonie religiose ad arena per i combattimenti dei gladiatori o a baraccone per rappresentazioni in piazza; da gradinata con spazio centrale, come oggi uno stadio, a sala rettangolare nelle corti europee, al teatro cosiddetto all’italiana, a forma di ferro da cavallo con platea e palchi per il pubblico. Può bastare anche uno slargo con al centro gli attori e attorno il pubblico. O una strada. O un capannone. Una fabbrica occupata. Una Camera del lavoro. Le differenze architettoniche e spaziali corrispondono anche a differenze di intenti, di contenuto, di organizzazione. Da momento liturgico a lazzo scurrile, da cerimonia di corte a compiacimento borghese, da compagnie girovaghe e socialmente marginali a sovvenzioni statali. Si potrebbe continuare a lungo, articolando somiglianze e differenze. Il Novecento è stato il secolo dell’esplosione: teatro borghese, teatro politico, teatro di strada, teatro sperimentale, teatro-danza, teatro di gruppo… avanguardia e tradizione, come in altri campi artistici, laboratori, nuovi spazi. Uno dei capolavori del secondo Novecento, il Mahabharata di Peter Brook, ad Avignone era in una cava abbandonata e raggiungibile a piedi dopo un percorso iniziatico in un battello sul Rodano. Assistetti ad Apocalypsis cum figuris di Grotowski, con l’indimenticabile Riszard Cieslack, in un’isola abbandonata e deserta della laguna di Venezia. Mimmo Borrelli, autore in una lingua inventata simile al dialetto flegreo, attore e regista, forse il talento più originale del teatro italiano contemporaneo, ha portato un gruppo di ragazzi napoletani a rivivere le storie delle “anime pezzentelle”, dei morti dimenticati, nell’ipogeo della chiesa di Santa Maria ad Arco. E gli esempi si potrebbero moltiplicare: molto Novecento è un autoesilio dai teatri e dal sistema teatrale.
Anche gli usi del teatro sono molteplici. Conosco un frate francescano che prima di prendere gli ordini si è diplomato all’Accademia dei Filodrammatici di Milano e poi ha fatto teatro con ragazzi rinchiusi nelle prigioni africane e attraverso il teatro ha dato loro forza e consapevolezza. Ronconi diresse Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus al Lingotto di Torino e Infinities (tratto dai testi vari del matematico e scienziato John D. Barrow) negli ex laboratori della Scala alla Bovisa di Milano.

Questi esempi e ricordi mi sono venuti alla mente leggendo i saggi di Ferdinando Taviani (1942 – 2020) raccolti e acutamente contestualizzati e commentati in due volumi dalla sua allieva e poi collega all’Università Mirella Schino: Le visioni del teatro e Il rossore dell’attrice, Bulzoni. Taviani, che nella copertina di uno dei due testi si vede volteggiare in aria aggrappato a una fune e avvolto in un grande mantello, mentre Iben Nagel Rasmussen, attrice dell’Odin Teatret, in cima a un arco monumentale, col volto mascherato, suona freneticamente un tamburo, è stato il più noto del gruppo dei “professori” (Fabrizio Cruciani, scomparso ancora giovane, Claudio Meldolesi, Ferruccio Marotti, Franco Ruffini, Nicola Savarese, Clelia Falletti, Laura Mariani…), molti dei quali usciti dalla scuola di Giovanni Macchia.
Taviani, ricordato tra l’altro da Massimo Marino in un bellissimo articolo su Doppiozero (https://www.doppiozero.com/materiali/ferdinando-taviani-studioso-militante), è stato anche membro dell’Odin Teatret di Eugenio Barba, oltre che professore universitario (a Lecce e a L’Aquila). Ma qui conta il suo modo di studiare il teatro, basato non tanto sull’analisi dei testi o sulla teoria ma sulla pratica e sul contesto materiale in cui nasce e cresce quella varietà di forme e di procedure che per consuetudine e in mancanza d’altro termine continuiamo a chiamare “teatro”. Illuminante in proposito il saggio Teatri, società e modi di produzione scritto per l’ “Appendice 2000” dell’Enciclopedia Italiana (Le visioni del teatro, pp. 311-340).
“Nasce un teatro come espressione di piccoli gruppi di persone che forse presentano necessità e contraddizioni che riguardano un numero limitato di individui. Essi, però, esistono, si manifestano e agiscono fra di noi. Sono gruppi che non si sognano come veicoli di grandi parole, di grandi messaggi, di grandi dibattiti, ma che cercano la strada perché il singolo entri in contatto con il singolo, il diverso con il diverso. Non contenuti nuovi, ma rapporti nuovi, spesso difficilmente decifrabili, vengono a prendere il posto lasciato vuoto dagli abituali contenuti del teatro. Non è un “altro teatro” che nasce. Altre situazioni cominciano a essere chiamate teatro.” (Eugenio Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta. Ubulibri, Milano, 1985, 1996, p. 181, citato da Ponte di Pino, Teatro della persona, teatri delle persone – http://www.ateatro.it/webzine/2012/02/28) Ci sono in queste parole gli incunaboli di molto teatro dei nostri anni (pandemie e lockdown a parte). Ma tutto il Novecento è caratterizzato dall’uscita dai teatri e dal sistema teatrale ufficiale (e sovvenzionato). In proposito uno dei saggi più acuti e controcorrente di Nando Taviani è Enclave (in Le visioni del teatro, pp.251 – 266). Con questo termine Taviani designa “quelle formazioni teatrali che fanno parte per se stesse e non adottano le convenzioni tipiche del sistema teatrale in cui vivono (forme artistiche, modi di produzione, organizzazione interna e modi di entrare in contatto con il pubblico e gli spettatori). (…) Sono piccoli luoghi in cui per autodidattismo, convenienza o estremismo il teatro viene reinventato da cima a fondo.” (pp. 251 e 252) Molto grande teatro novecentesco è cresciuto in questo modo: minoranze extraterritoriali, spesso autodidatte o rifiutate dalle scuole ufficiali, a volte senza una sede stabile (basti pensare al Living Theatre, che non ha mai avuto una fissa dimora), che hanno fatto storia quasi sempre fuori dal sistema teatrale ufficiale. E ancor oggi, anche in Italia, molti degli eventi teatrali più interessanti sono realizzati da gruppi autonomi, come, per fare un solo esempio, il Teatro delle Albe, di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari, con sede a Ravenna ma che passa dalla Romagna a Scampia al Senegal. Dall’ Ubu Buur (dall’Ubu re di Jarry), con lo strepitoso Mandiaye N’Diaye protagonista ed Ermanna Montanari nel ruolo di Mère Ubu, alla Divina Commedia (è slittato il Paradiso causa Coronavirus) fatta vivere da attori professionisti, ragazzi e cittadini ravennati per le strade e in luoghi deputati della città. Un esempio magistrale di teatro partecipato.
E può anche succedere che un grande regista come Peter Brook, dopo aver diretto con costante successo vari teatri a un certo punto “si sposta a Parigi, raccoglie attorno a sé un minuscolo nucleo di attori di differenti nazionalità e colori, si installa nella banlieu, accanto allo sferragliare d’un metrò sopraelevato, in un ex-rudere, nel guscio vuoto d’un teatro d’antan [il Theâtre des Bouffes du Nord] (p.260)” e lì lavora per 34 anni con “attori inglesi, francesi, indiani, africani, giapponesi, polacchi, balinesi [che] si distribuiscono le parti non tenendo in alcun conto il colore della pelle, la cultura, la tradizione teatrale o la lingua di provenienza. A seconda dei casi, parlano tutti la lingua francese o tutti la lingua inglese.” (p.314)
Ho citato solo alcuni dei tanti saggi scelti da Mirella Schino nei due volumi: molti altri ce ne sarebbero, per non parlar dei libri di Taviani, sulla Commedia dell’Arte, a esempio, o su Pirandello, nel Meridiano da lui curato e prefato che raccoglie Saggi e Interventi dello scrittore e premio Nobel di Agrigento. Ma qui il discorso è sulla diaspora dal teatro istituzionale e sulle varie forme che lo “spettacolo dal vivo” ha assunto negli ultimi anni.
Gli dedicano una particolare attenzione il webzine dell’Associazione Ateatro e la collana di libri diretta da Mimma Gallina e Ponte di Pino per l’editore Franco Angeli. Nel recente Un teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale, dedicato a Eugenio Barba e a Giuliano Scabia, Ponte di Pino passa in rassegna gli ultimi 20 anni. Ogni anno è scandito in tre capitoli fissi: Inteatro, con recensioni e discussioni relative agli spettacoli ritenuti per varie ragioni più interessanti e significativi; Extrateatro, con gli eventi che direttamente o indirettamente influiscono sulla comunicazione e sulle arti dello spettacolo; Ateatro, sintesi e sviluppo dei problemi trattati dall’Associazione Ateatro e dalle sue varie attività (blog, incontri, video ecc). Molto spazio è dedicato al teatro fuori dai teatri, alle performances extrateatrali e alle sinergie con le arti visive, alla teatralità quotidiana, al teatro sociale o di comunità. Il teatro come terapia. Il teatro partecipato (ogni spettatore ha una cuffia su cui riceve istruzioni su come interagire con gli altri). Il teatro delle carezze: niente di erotico, solo un attore che si prende cura di te. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il Teatro di gruppo o Terzo teatro (cioè né tradizionale né d’avanguardia), così battezzato da Eugenio Barba nel 1976 e animato anche dal mood sociopolitico dell’epoca, continua, soprattutto fuori dall’Europa. Ma ad esso si sono sovrapposte e succedute molte altre forme di aggregazione e di relazione come quelle sopra citate.
Quello che resta incerto è il futuro, almeno immediato. Che effetti avrà la pandemia di Coronavirus e le conseguenti reclusioni sullo spettacolo (qualunque esso sia) dal vivo? E l’elettronica ormai dominante potrà essere integrabile nella comunicazione teatrale o la soppianterà?