Suicidi e contenti

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suicidi e contenti

Siamo ancora in tempo! – sottinteso “per non finire suicidi” (ma il titolo originale, Less is more, “Meno è meglio”, è molto più preciso e aderente al contenuto del testo) è un saggio dell’antropologo ed economista Jason Hickel, autore anche del fortunato The Divide (letteralmente: Il divario, ma l’editore italiano di Hickel, il Saggiatore, l’ha pubblicato nel 2018 col titolo originale). A mio parere dovrebbe essere adottato in tutte le scuole e tenuto sul comodino o sulle scrivanie di tutti noi: leggerne anche solo una pagina al giorno deprime ma è pure un benefico massaggio del cervello. Ed è anche un prontuario per rendere più civili le nostre esistenze e per creare un’economia sostenibile in un mondo dalle risorse finite.

Hickel, che scrive quasi in contemporanea con la pandemia che sta ulteriormente allargando la frattura, il divario appunto, tra ricchi e poveri del globo, smonta tutto quello che leggiamo nei nostri giornali, ascoltiamo alla radio o vediamo alla televisione: un’economia basata sul Pil e la crescita non solo è ingiusta, ma non ha nemmeno futuro e porta alla rovina l’umanità e il pianeta. (Ma quello, almeno, dopo una cinquantina d’anni senza l’uomo, potrebbe anche riprendersi e continuare il suo corso: era la consolazione di Anna Maria Ortese.)

Uno sviluppo fine a se stesso è come un tumore, dice Hickel. E una crescita del PIL globale al 2-3% annuo (il dogma del capitalismo contemporaneo) pretende di “raddoppiare le dimensioni dell’economia globale ogni 23 anni e poi raddoppiarle di nuovo dal loro stato già raddoppiato, e poi ancora, e ancora. (…) Mano a mano che il PIL cresce, l’economia globale consuma ogni anno più energia e più risorse e produce più scarti, al punto che stiamo ormai nettamente oltrepassando quelli che gli scienziati hanno definito i ‘confini del pianeta’, con conseguenze devastanti per il mondo vivente.” (pp.31-32) Dallo scioglimento dei ghiacciai, e conseguente prevedibile innalzamento del livello dei mari con allagamenti delle città costiere (New York, Miami, Giacarta, Rio, Osaka…), alle siccità che desertificheranno intere regioni attualmente ancora coltivate.

In questo suo secondo libro, inoltre, Hickel allarga la prospettiva del precedente, ricostruendo la storia dei misfatti dell’Occidente e arricchendo discorso e proposte con dati e analisi sempre concrete. A esempio, tra le tante proposte di cambiamento, una delle prime sarebbe quella di ridurre le disuguaglianze, non solo quelle planetarie (il coronavirus ne ha documentate a iosa, a partire dalla dotazione dei vaccini) ma anche quelle “normali”, se così si può dire, per noi del Nord del mondo. Tipo: “Nel 2017 Steve Easterbrook, l’amministratore delegato della McDonald’s, guadagnava 21,7 milioni di dollari, mentre il lavoratore a tempo pieno mediano della sua società portava a casa in tutto 7017 dollari. (…) un rapporto di 3.100 a 1. In altre parole, il dipendente medio della McDonald’s dovrebbe lavorare 3100 anni – ogni giorno che è trascorso dall’avvento dell’antica Grecia a oggi – per guadagnare quello che Steve Easterbrook si trova in busta paga ogni anno.” (p.207) E non dovremmo dimenticare mai che quanto sprechiamo è sottratto ad altri (e se ripercorressimo le nostre giornate e i nostri acquisti e il nostro stile di vita vedremmo, magari vergognandoci anche un po’, di quante beni ci appropriamo prodotti da altri a condizioni servili, o peggio.)

Sintetizzando un testo ricco di spunti e molto articolato, si può dire che Hickel segue e intreccia due percorsi. Innanzi tutto quello dell’Occidente e del capitalismo, con le sue nefandezze (stragi, schiavitù, espropriazioni, devastazioni di civiltà intere spacciate per progresso) dal ‘500 in poi. Grosso modo l’uomo è sulla terra da trecentomila anni e “per il 97% circa di questo periodo, i nostri antenati hanno vissuto in relativa armonia con gli ecosistemi della Terra. (…) È stato solo con l’ascesa del capitalismo negli ultimi secoli, e con l’impressionante accelerazione dell’industrializzazione dagli anni Cinquanta del secolo scorso che la situazione, su scala planetaria, ha iniziato a sbilanciarsi.” (p.47) A causa di un particolare sistema economico, il capitalismo appunto, “un fenomeno vecchio di appena cinque secoli o giù di lì. Il cui tratto distintivo non è la presenza di mercati, ma il fatto che sia organizzato intorno al principio di una crescita perpetua.”(p. 48)

A questo filone storico Hickel intreccia quello scientifico-filosofico, soffermandosi particolarmente su Bacone, che “sosteneva che la scienza doveva torturare la natura per strapparle i suoi segreti” (p.71), e soprattutto Cartesio, col suo dualismo tra mente e materia e la netta divisione tra esseri umani e natura: “Le piante e gli animali non hanno nessuno spirito e nemmeno capacità di agire, intenzione o motivazione: sono meri automi, che operano secondo leggi meccaniche prevedibili, ticchettando come un orologio.” (p.72) E per dimostrare tutto ciò dissezionava animali vivi. “Inchiodava i loro arti a un tavolo e sondava i loro organi e i nervi (usando perfino, in un episodio particolarmente grottesco, il cane di sua moglie). Mentre gli animali gemevano e si contorcevano in agonia, insisteva che quella era solo l’ “apparenza” del dolore, un semplice riflesso: muscoli e tendini che reagiscono automaticamente a stimoli fisici.” (p.73) A questo dualismo, che si riflette anche nell’uomo tra corpo materiale e mente immateriale, si oppose solo Spinoza con la sua concezione di un’ unica, grande Realtà, ma al momento prevalse il dualismo cartesiano e Spinoza fu perseguitato. E così, “a un livello profondo, la filosofia dualista è responsabile della nostra crisi ecologica.” (p.41)

A questo percorso Hickel, proprio collegandosi alla lontana con Spinoza, intreccia un recupero aggiornato e scientifico dell’animismo. Vale a dire di una concezione non dualistica ma di relazione e reciprocità tra gli esseri tutti. Riconoscendo le altre specie come “soggetti che hanno la propria esperienza soggettiva e sensibile del mondo, esattamente come noi umani. E proprio perché sono soggetti sono considerati persone.” (p.237) Il che comporta anche che “dobbiamo imparare a considerarci di nuovo parte di una comunità più vasta di esseri viventi” (p. 244) in una relazione di interdipendenza. (Risuona qui la distinzione di Martin Buber tra “Io-Tu” e “Io-Esso”.)

Conosco personalmente vecchi montanari che parlano con gli alberi, che chiedono loro scusa prima di tagliarli per l’inverno, che sanno come nel bosco le reti fungine sotterranee trasmettono alle piante messaggi chimici meglio degli SMS dei nostri cellulari. E ho conosciuto contadini che senza essere schiavi delle sementi ibride o transgeniche da ricomperare ogni anno alternavano le colture e avevano con la terra una relazione che sta scomparendo, sradicata e sostituita dalla (costosa) concezione estrattivistica imposta dalle multinazionali alimentari. Personaggi, questi, ormai considerati tutti come un tempo le zitelle dell’Esercito della Salvezza. Eppure “dal bacino del Rio delle Amazzoni agli altopiani della Bolivia alle foreste della Malaysia, dove le persone pensano e interagiscono con gli esseri non umani – dai giaguari ai fiumi – non come la ‘natura’, ma come propri parenti” (p.41) questo modo di considerare il mondo è ancora vivo. E dovremmo forse tutti rileggere Mauss e il suo scambio del dono.“ Niente esiste da solo. L’individualità è un’illusione. La vita su questo pianeta è un intreccio di relazioni in divenire.” (p.252)

Capitalismo suicidi e contenti

Gli autori

Gianandrea Piccioli

"Una lunghissima esperienza alla guida di marchi storici, prima Garzanti, poi Sansoni, più tardi Rizzoli, ancora Garzanti, a settant’anni è considerato uno dei grandi saggi dell’editoria («Ma che esagerazione, sono solo capitato fra le due sedie: dopo i grandi e prima del marketing»), cresciuto alla Corsia dei Servi, l’eretica libreria milanese che negli anni Sessanta mescolava Bellocchio e padre Turoldo. Passo resistente da montanaro, è abituato a scalare le vette impervie di giganti quali Garboli o Garzanti, Steiner o Fallaci. L’editoria che incarna è molto diversa da quella attuale, «per imparare il mestiere non ti portavano a fare i giochi di ruolo in luoghi esotici». Quasi dieci anni fa la decisione di lasciare, «perché il mondo era cambiato e non riuscivo più a intercettare il mutamento». Oggi il suo sguardo appare molto nitido, nutrito di letture meticolose condotte nel buen retiro di Rhêmes o nel silenzio di Casperia, un borgo medievale nell’alta Sabina. «La crisi dell’editoria è una crisi culturale. Si fanno troppi libri, molti anche interessanti, ma oscurati dalla censura del mercato. E soprattutto le case editrici hanno rinunciato a un progetto, a una visione complessiva che suggerisca un’interpretazione del mondo»" [da https://ilmiolibro.kataweb.it].

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