Il libro di Elena Madrussan (Formazione e musica. L’ineffabile significante nel quotidiano giovanile, Mimesis, Milano 2021) ha origini “lontane”, negli anni Settanta del secolo scorso, quando gli studi di una nuova generazione di musicologi criticarono le posizioni di Adorno e misero in discussione l’idea che la popular music fosse una categoria degradata dello “spirito alto” della musica, un prodotto commerciale, di consumo senza consapevolezza. I loro studi, al contrario, erano tesi a dimostrare come il rock esprimesse musicalmente le istanze di gruppi sociali avversi all’ordine costituito, interpretando proprio quella funzione di critica del potere che Adorno riteneva appannaggio esclusivo della musica colta.
Salta il confine tra musica “buona” e “cattiva”
Da allora la sociologia della musica si è contaminata con altre discipline come l’antropologia, l’etnomusicologia, la storia della musica, gli studi sulle sottoculture e la sociologia dell’arte, confluendo nell’ambito interdisciplinare dei popular music studies e nel vasto e onnicomprensivo settore dei cultural studies. Studi che riprendono e amplificano, in un processo di meticciamento interdisciplinare, l’ipotesi di partenza della sociologia della musica la quale vuole studiare le relazioni esistenti tra i diversi fenomeni musicali e i contesti sociali in cui essi si manifestano, tenendo conto che i linguaggi musicali svolgono un ruolo significativo nei processi di costruzione sociale della realtà e dell’immaginario, individuale e collettivo. Fenomeno tanto più rilevante nelle società contemporanee nelle quali i mass media e le tecnologie della musica favoriscono attraversamenti sonori, nel tempo e nello spazio, contribuendo alla costruzione delle esperienze e delle memorie personali e collettive.
Non è stato facile attraversare la barriera posta dalla distinzione tra cultura “alta” e popolare e di conseguenza, tra “buona” e “cattiva” musica, quella che Adorno intravvedeva nella trasformazione della musica in prodotto di consumo di massa (jazz e canzonette), che costruiva una falsa coscienza, contrapposta a quella autentica della musica colta. Si sono dovuti riconsiderare concetti e approcci cominciando dalla distinzione tra la musica ascoltata da un pubblico attrezzato, consapevole e interessato, e la popular music, definizione che abbraccia tutta quella produzione musicale di larga diffusione, di cui fanno parte molti generi, tra i quali il pop e il rock sono i più diffusi, quindi popolari.
Ciò che distingue la musica popolare, osservava già Antonio Gramsci nelle sue riflessioni sul folklore, «nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita. In ciò e solo in ciò è da ricercare la “collettività” del canto popolare, e del popolo stesso». Si è dovuto rivedere lo stesso termine di cultura per darne un significato più ampio e pedagogicamente significativo, per cui essa si definisce come sistema di stili di vita e di comportamenti i cui significati e valori, impliciti ed espliciti, definiscono uno stato dinamico di trasformazione sociale.
Aspetti educativi del quotidiano
La musica abita e riempie la nostra quotidianità, gli ambienti e i luoghi che frequentiamo, per scelta intenzionale oppure no, come quella che ci accompagna durante la spesa nei supermercati o proposta nei locali dove consumiamo colazioni, pranzi e cene. Così è perlomeno a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando si è formato un circuito di diffusione e assorbimento rapido che ha inciso sulle varie generazioni, lasciando un segno nella formazione della struttura di carattere degli individui nell’età preadolescenziale e adolescenziale. Non a caso psicologi e pedagogisti si sono resi conto di dover indagare l’esperienza musicale come luogo di scoperta di sé, di emozioni, di desideri e aspirazioni.
Esiste una connessione tra musica e vita, tra l’educazione messa in atto dalle istituzioni e quella informale, non esplicitamente percepita, che alberga nel fondo delle nostre autobiografie, di cui fanno parte le atmosfere musicali, che hanno contribuito alla formazione della personalità, compresa quella parte di esperienze recepite in maniera inconscia, escluse dai saperi istituzionalizzati ma non meno importanti. Non a caso quella musica mantiene intatta un forte elemento evocativo. Lo aveva già capito Marcel Proust quando affermava che non si deve disprezzare la “cattiva musica” «dal momento che la si suona e la si canta ben di più e ben più appassionatamente di quella buona, […] si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini. […] Il suo posto, nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società. Il rispetto […] per la cattiva musica […] è la coscienza dell’importanza del ruolo sociale della musica» (I piaceri e i giorni, Torino, 1988).
L’ascolto di un brano musicale muove nel soggetto diversi elementi costitutivi del suo carattere e dell’esistenza, attivando quella percezione prelogica, che va dalla rievocazione rammemorante alle riflessioni su di sé. La musica è oggetto di un’appropriazione personale che mette in moto sensazioni insiste nel proprio percepire e percepirsi. È uno degli aspetti formativi della personalità, importante quanto quelli forniti dalle istituzioni educative, soprattutto in preadolescenza e adolescenza, ma non solo. Musica di intrattenimento certo, ma anche di contenuto che concorre alla definizione identitaria, gestisce buona parte della vita emotiva, attribuisce un senso all’esperienza memoriale e dà senso alla nostra vita.
Un approccio pedagogico al problema
La musica leggera, le canzonette da consumare come prodotti acquistati in gastronomia, vanno prese sul serio perché, scrive l’autrice, intercettano scenari e costruiscono narrazioni dei bisogni di riconoscimento più diffusi, anche quando incarnano il condannato esempio dell’evasione e dell’estraniazione sociale, perché smarrimento e confusione rappresentano una sorta di cattivo adattamento a una condizione alienante, una soggettività individuale che non riesce ad esprimersi, contratta, dolorante e, in fondo, inquieta, alla ricerca di un’evasione consapevole. Inquietudine raccolta e narrata da quella musica popolare che nasce per opporsi al conformismo, di protesta e di denuncia sociale.
La sottostima della presunta povertà musicale, per la sua origine “bassa” e popolare, per il suo porsi come “anti cultura” rispetto a quella “alta”, a partire dal jazz fino al rock e alle sue varianti, ha fatto si che raramente sia stata studiata in una prospettiva pedagogica. Se la sociologia ha spiegato perché certi fenomeni si impongono all’apprezzamento del pubblico, la pedagogia deve darsi il compito di comprendere come l’appropriazione identitaria costituisca un percorso formativo in quell’ambito di ascolto disinteressato e reiterato dove musica e testo evocano immagini e sensazioni. Perché ciò che i cantanti significano per noi non è solo ciò che cantano, ma come lo cantano. Musica e interpretazione canora danno ai testi vitalità linguistica, e chi ascolta stabilisce con la musica un rapporto d’uso culturale.
Preadolescenza e adolescenza si legano con l’immagine di sé, della corporeità, delle relazioni, dell’accoglienza nel gruppo dei pari e con la conquista di un equilibrio emotivo e sociale. In questo processo la musica assume un ruolo chiave d’identificazione e di differenziazione gruppale, di espressività e individuazione di desideri. Pertanto, occorre assumere la canzone e la sua musica come una delle variabili che costruiscono una personalità. Si tratta, scrive l’autrice, di sottrarre l’esperienza della musica dal quotidiano insignificante per restituirle un orizzonte di senso pedagogico.
Musica oltre le classi sociali
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta la musica rock si diffonde nell’Occidente capitalistico, penetra nelle Democrazie popolari dei paesi dell’Europa Orientale e nella stessa Unione Sovietica. Con sarcasmo si è detto che il “lennonismo” (da John Lennon, dei Beatles) sostituiva il leninismo dell’ortodossia culturale marxista, che gli Stati Uniti col rock stavano vincendo la Guerra fredda culturale, conquistando l’anima della gioventù socialista.
La musica rock assunse tutte le caratteristiche di alternatività alla cultura dominante, coinvolgendo soprattutto il pubblico giovanile in una dimensione trasversale alle classi sociali d’appartenenza, tale da coinvolgere una generazione nel suo insieme. Col rock, si legge nel libro, viene meno la corrispondenza diretta tra gusto, comportamenti e classe sociale di riferimento, segnalata nella poderosa ricerca di Pierre Bourdieu, che aveva dimostrato come preferenze musicali, giudizi estetici e di valore fossero il prodotto delle differenze sociali e di classe esistenti.
Il tempo della giovinezza di una generazione, diventa pedagogicamente centrale e decisivo e trova in quel genere musicale la capacità di rappresentare stati d’animo, istanze politiche, ribellioni esistenziali, modi di vedere la realtà e di immaginare il futuro. Nella partecipazione attiva e passiva al genere rock si innescano, da parte dei fruitori, processi mimetici di appropriazione corporea di stili di vita, modi di essere, di vestire, di portare la chioma, diffusi dalle star le quali incarnano assieme mito e realtà, definendo dei tipi ideali ai quali conformarsi o sui quali proiettare le proprie frustrazioni. È una musica che favorisce processi di identificazione, crea legami epidermici di appartenenza, spesso simbolici. Forte è la seduttività dell’icona che coinvolge il pubblico nella rappresentazione dei suoi desideri di libertà e di protesta, diretto è il sodalizio tra impegno, provocazione e ambizione dei giovani che lo usano per marcare la differenza generazionale dal mondo degli adulti.
Concludere rilanciando
Sulla linea retta di questa narrazione-interpretazione, nella parte conclusiva del libro si avanzano proposte di lavoro e di indagine suggestive e interessanti. Stabilito che il rock è un genere musicale in continuo movimento, alla fine degli anni Settanta la valorizzazione della differenza, svolta precedentemente, si trasferisce dall’io generazionale collettivo, al soggetto individuo. Alle politiche dei bisogni, come si diceva, subentrano quelle dei desideri. Nel decennio seguente la tecnica offre i videoclip e MTV che affiancano alla musica il racconto per immagini, con danza e corporeità. Negli anni Novanta, la richiesta fatta ai giovani di essere professionalmente creativi e competitivi sul mercato del lavoro, produce l’estetizzazione dei corpi, un’identità liberista e personale, non più collettiva, raccolta dalla musica tecno, rave, hip-hop. Infine, i cosiddetti millenials esprimono gusti musicali affini a quelli dei loro genitori a significare la fine dei conflitti generazionali, anche per il venir meno degli adulti e dei “vecchi”, come è stato fatto notare. Invece di esprimere se stessi preferiscono un frullato dei decenni precedenti (revival, ristampe, remake) che indicano una crisi della popular music nel senso di perdita della capacità di accogliere e dar voce alle istanze giovanili, uno svuotamento della costruzione dell’identità individuale.
Ottima recensione! Stringando Giachetti individua o trasferisce e trasmette temi molto interessanti ed accattivanti su concetti e preconcetti sulla musica anche qualche pregiudizio nel tempo che si usava x sminuire ciò che poi è diventata cultura a tutti gli effetti intrinseca nella società, nelle generazioni ed anche nelle formazioni personali, credo che il libro sia interessante e quindi lo scavo profondo di Giachetti invita noi tutti alla lettura, grazie