Memoranda/ L’altra faccia della luna

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Che la rivoluzione digitale muti il modo di concepire e produrre la cultura, è cosa nota. Tale transizione può anche avvenire rapidamente e all’improvviso, non per scelta ponderata ma per necessità, come è accaduto nel 2020 a causa della pandemia. Solo alla fine dello scorso febbraio si assisteva regolarmente alle lezioni scolastiche e universitarie, si presentavano libri in libreria, si visitavano i musei e le gallerie, si partecipava alle conferenze in modo tradizionale, cioè in presenza. Di colpo, da marzo, tutto ciò ha subito un contraccolpo che ha disorientato e talvolta perfino avvilito chi abitualmente fruisce della cultura o ne fa il proprio mestiere.

Quella cui abbiamo assistito in questi mesi non è una rivoluzione, bensì una rottura. Questo è il termine che meglio traduce l’inglese disruption, concetto che indica più di una mera interruzione (interruption) ma meno di una rivoluzione (revolution). Per fare un esempio, l’innovazione tecnologica della Sylicon Valley, che implica la trasformazione del rapporto tra politica, società e innovazione industriale, è fondata sulla filosofia della disruption: quando l’imprenditore lancia sul mercato una nuova tecnologia, che trasforma il modo di lavorare e influenza le pratiche sociali, il legislatore scopre che le regole esistenti non prevedono le condizioni che si sono venute a creare, e perciò sono insufficienti per regolamentare la nuova prassi. Questa disruption obbliga il legislatore (e la società che lo elegge) ad adeguarsi a un nuovo stato di cose. Non si tratta di una rivoluzione, perché dal processo non emerge un cambiamento di strutture e di istituzioni, bensì una sostituzione di pratiche e di relative regolamentazioni (policies).

Quella tra la cultura e la tecnologia è una collaborazione iniziata già da diversi anni, con risultati interessanti nel settore museale e nella didattica. Uno dei maggiori vantaggi connessi con l’uso della tecnologia digitale nei progetti culturali consiste nella possibilità di raggiungere pubblici più ampi e distanti, per esempio nelle aree interne o dove il disagio sociale ed economico impedisce, soprattutto ai giovani, di prendere parte alla vita culturale in modo attivo. Nuovi modi alternativi di produrre e diffondere cultura si sono diffusi grazie alle tecnologie della rete, degli smartphones, della realtà virtuale e dei social networks. Non è un caso se le nuove pratiche culturali sono strettamente connesse proprio con quelle tecnologie popolari e globali (la rete e i supporti hardware che permettono di connettersi ad essa), la cui diffusione sul mercato è fondata sulla filosofia della disruption.

L’impatto della pandemia sta quindi accelerando un processo già avviato. Non si tratta però di una rivoluzione, quanto di una necessaria risposta al bisogno pratico di sanare la frattura che da marzo separa le pratiche culturali tradizionali da quelle cui ci stiamo abituando nel nuovo “regime Covid”. L’uso di strumenti tecnologici per la cultura si è trasformato, nel volgere di pochi mesi, da opportunità a necessità, come mezzo per svolgere le attività didattiche e per permettere l’esistenza di manifestazioni culturali, cui non è più possibile partecipare “in presenza”.

Tale massiccia e improvvisa digitalizzazione della cultura impone, a mio avviso, un’osservazione critica su un aspetto in particolare, ovvero la perdita della dimensione sociale. Prendere parte agli eventi culturali “in presenza” permette di condividere un’esperienza collettiva da cui derivano lo scambio di idee e opinioni, la solidificazione di relazioni interpersonali, magari perfino amicizie e relazioni sentimentali.

Incontrarsi: questo risultato straordinario della cultura è proprio ciò che nel corso degli ultimi mesi sembra essere stato messo in discussione, e le risposte che la politica fino a oggi ha dato al mondo della cultura sono men che deludenti. La cultura, infatti, non è soltanto accumulo di nozioni, bensì partecipazione e scelta, adesione libera, inclinazione, desiderio di uscire dal proprio spazio privato per scoprire il mondo e incontrare il diverso, l’inusitato, l’ignoto.

Adesso la cultura, che prima veniva fatta in molti luoghi pubblici deputati, entra dentro le case attraverso le piattaforme di comunicazione in rete. Molti di noi subiscono l’effetto straniante di ritrovarsi scagliati quasi oltre il confine del proprio mondo abituale e domestico, mentre siamo invece intrappolati inesorabilmente nelle solite quattro mura dell’abitudine. Possiamo seguire una conferenza restando in pigiama, o visitare un museo mentre distrattamente apriamo e chiudiamo altre schede del browser, sfogliando la posta elettronica e i messaggi della chat. Rischiamo di essere lì e qui al contempo: mai veramente qui, né seriamente lì. Se ci capita di essere impegnati come relatori in una conferenza, o come insegnanti a lezione, dobbiamo sottomettere il privato alla necessità di fornire un’immagine pubblica: dobbiamo scegliere la stanza con lo sfondo adeguato, chiudere la porta, imporre in silenzio agli altri abitanti della casa. Il pubblico si infiltra nel domestico, ma in un modo indiretto e tendenzialmente passivo che ricorda in certo senso le forme della comunicazione televisiva.

Fare, vivere e avere una cultura significa starci dentro e scegliere in ogni momento l’intensità e la modalità di tale partecipazione. La cultura è il modo umano di stare al mondo, e per noi che siamo corpi pensanti ciò significa essere nell’esperienza. Che cosa significa visitare quel luogo, e non semplicemente trovarsi proiettati virtualmente al cospetto di un’immagine virtuale del mondo? Significa esplorare l’altra faccia della luna, che per vederla bisogna proprio andare fin lassù: sogniamo l’altra faccia della Luna, perché desideriamo andarci e vederla. Senza questo impulso sentimentale, la pratica culturale perde molto del suo potere e fascino.

Tuttavia, l’improvvisa accelerazione del processo di digitalizzazione della cultura ci ha messo davanti a un fatto forse banale ma che troppo spesso dimentichiamo: che non tutti abbiamo la possibilità di andare a vedere l’altra faccia della Luna. Qui le istituzioni e le persone che vivono producendo e diffondendo cultura si trovano davanti alla sfida di ripensare la filosofia della partecipazione. L’applicazione della tecnologia digitale alla cultura permette di coinvolgere pubblici lontani o marginali, se non addirittura esclusi dalle manifestazioni culturali tradizionali. E poiché concordo con McLuhan, che il mezzo di comunicazione influenza il contenuto del messaggio, sono certo che assisteremo a trasformazioni graduali ma sensibili della nozione stessa di cultura.

Il mondo della cultura si sta organizzando, mettendo in circolazione idee e modelli in progetti che vedono collaborare il mondo della scuola, le start-up, le istituzioni museali, gli enti e le associazioni culturali. L’obiettivo è capire come impiegare i supporti tecnologici in parte per potenziare le pratiche tradizionali, in parte per ideare nuovi contenuti e nuove forme di produzione e fruizione. L’equilibrio fra le due istanze sarà necessario affinché la digitalizzazione avvii una rivoluzione che, nel tempo, trasformerà la nozione stessa di cultura. Finalizzare gli strumenti tecnologici a questa esperienza reale è il modo intelligente e virtuoso di procedere verso una rivoluzione culturale che noi forse non vedremo e che sarà affidata a chi verrà dopo di noi.

La tecnologia, a mio avviso, dovrà rimanere un prezioso strumento e non diventare il fine del processo di produzione e fruizione culturale. Dovremo tornare a vivere la cultura nel tempo e nello spazio fisico, nei luoghi materiali, dove il “culturale” può essere esperito come una parte viva della realtà. La tecnologia potrebbe permetterci di avere un assaggio, magari anche sofisticatamente sinestetico, di cosa si prova a stare sull’altra faccia della Luna, ma non dobbiamo dimenticare che la Luna vista da casa non è la stessa cosa. Non dobbiamo perdere la capacità di immaginare e desiderare di prendere parte alla cultura, nei limiti del possibile. La pandemia passerà e torneremo liberi di incontrarci, e spero che non sarà scomparsa la voglia di vedere il lato oscuro della Luna con i nostri occhi.

Gli autori

Gianluca Cinelli

Gianluca Cinelli è dottore di ricerca in italianistica, ha studiato a Roma e a Cork ed è stato ricercatore della Alexander von Humboldt Stiftung presso l’università di Francoforte. Il suo principale interesse di ricerca è la relazione fra letteratura e storia, con particolare attenzione sugli aspetti etici e retorici di questo rapporto. Tra le sue pubblicazioni maggiori: Ermeneutica e scrittura autobiografica (Milano, 2008), Nuto Revelli (Torino, 2011), La questione del male in Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni (Leicester, 2015) e “Viandante, giungessi a Sparta”. Il modo memorialistico nella narrativa contemporanea (Roma, 2016). È autore di articoli scientifici su Primo Levi, Alessandro Manzoni, Mario Rigoni Stern e sulla memorialistica. Dal 2012 è attivo anche come autore di narrativa, con i volumi Fantasmi in Val d’Orcia (Cuneo, 2012) e La voce delle cose (Cuneo, 2017).

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