Memoranda/ Calabria – Le trappole dell’identità

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La geografia romantica e leggendaria di una terra in viaggio – «Perché ci fanno vergognare di sentirci calabresi?», «perché siamo sempre gli ultimi?», «perché gli altri parlano così male di noi?», «perché succedono tutte qui da noi?»: sono queste le domande che in rete, sui profili Facebook, sui giornali a stampa e online, nazionali o locali, nei discorsi pubblici e privati le persone di Calabria si pongono con sentimenti contrastanti, con un misto di dolore e di rabbia, di irritazione e indignazione nei confronti del ceto dirigente politico nazionale e regionale (che poi puntualmente votano). C’è in queste domande un senso di ribellione e di orgogliosa appartenenza risvegliato dal fatto che siano altri a dire ciò che, da parte loro, sanno e si dicono spesso mutuamente, con accenti che denotano soprattutto stupore, rassegnazione, rabbia, e solo in pochi casi volontà di capire, senso di responsabilità, lucida e dolente speranza, progetto per cambiare le cose.

Poche regioni d’Europa come la Calabria hanno conosciuto una sovraesposizione o sottoesposizione di immagini, rappresentazioni, descrizioni e poche popolazioni come quelle calabresi (forse a parte gli ebrei che, peraltro, nella regione hanno avuto una lunga e incisiva presenza) sono state turbate, ossessionate, angustiate dalla loro “identità” e dal modo con cui vengono percepite e raccontate dagli altri. La regione, diciamo la verità, non ha goduto in epoca moderna e ai nostri giorni, per una serie di ragioni, di rappresentazioni benevole, amichevoli, tanto meno amorevoli; tuttavia, dopo le recenti vicende come il filmato di Muccino, il pasticcio della Sanità e dei suoi mancati commissari, la devastante alluvione di Crotone, la sensazione è di essere giunti ai livelli più bassi ed estremi per una terra che nei secoli è stata descritta e percepita, anche dai suoi stessi abitanti, come lontana, altra, incompresa, offesa, negata, devastata, dimenticata, incomprensibile, insalvabile, persa. È passato quasi un secolo ma, con tutte le grandi trasformazioni intervenute, tornano sempre attuali le parole di Alvaro che nel 1930 scriveva: «Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione. La parola Calabria dice alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile. Una mia padrona di casa berlinese mi declamava “Kalabrien und Asturien!” tratto, credo, dai Masnadieri di Offenbach, e io non riuscivo a convincerla che le Asturie non c’entrano. Ma tant’è, la Calabria fa parte d’una geografia romantica». La Calabria è stata costruita e si è costruita come luogo estremo, come lontananza radicale, come alterità anche all’interno dell’alterità del Mezzogiorno.

Nella Prefazione alla Philosophia sensibus demonstrata (1591), una delle opere filosofiche più importanti dell’Europa moderna, Tommaso Campanella ricorda a Iacopo Antonio Marta, che aveva chiamato con «disprezzo Telesio ora Bruzio ed ora Calabrese», che «la Calabria è la migliore e la più antica di quasi tutte le regioni. Questa regione cominciò ad essere abitata dopo il diluvio per la fertilità del suolo da Aschenaz, nipote di Noè, nei pressi di Reggio. Fu chiamata Ausonia per essere fertile di ogni bene». Presso le popolazioni calabresi «vigoreggiano anche tutte le discipline e l’intera scienza umana, e quella che ora s’insegna nelle scuole trae origine dalla Calabria». Il «saccente» Marta, in realtà, non faceva che riproporre una serie di tipizzazioni anticalabresi o antibruzie diffuse almeno a partire dal Cinquecento in Italia e in Europa che volevano le popolazioni di queste zone acute d’ingegno e astute, forti, ma sediziose e  instabili, eccessive nelle loro gesta e nei loro sentimenti, vendicative e, soprattutto, traditrici secondo una tradizione risalente ad alcuni autori romani (Gellio, Livio, Festo, Catone).

Anche in epoca moderna i calabresi non godettero in Europa di buona fama. La regione delle «Indias de por acà», dove gli abitanti sembravano «tutti del bosco», come scrive nel 1561 il gesuita Giovanni Xavier, o la Calabria «Africa», secondo un’immagine Sette e Ottocentesca che si rafforza in epoca positivista e non di rado affiora in periodi successivi, restituiscono il senso di un luogo ritenuto lontano, sconosciuto, esotico, difficile da raggiungere e da percorrere a causa delle sue acque impetuose e travolgenti, della mancanza di strade e della scarsezza di alberghi e taverne, della presenza di pericolosi briganti spesso solo leggendari. «Le vecchie, in Francia, quando vogliono indicare un uomo finito, dicono: gira per la Calabria!», scrive a inizio Ottocento Astolphe De Custine, in viaggio in una terra che non doveva sembrare poi così remota ai suoi compatrioti, se vi erano arrivati per conquistarla. Un altro viaggiatore coevoCreuzé De Lesser, affermava: «L’Europa finisce a Napoli e vi finisce anche molto male. La Calabria, la Sicilia, tutto il resto è Africa».

Bisogna d’altro canto sottolineare che tali immagini convivevano con altre di segno positivo della Calabria come terra fertile, naturalmente ricca di prodotti, minerali, acqua, una sorta di Paradiso in terra, e che ponevano l’accento sulle qualità di accoglienza e sobrietà delle popolazioni locali.

Un’identità in-difesa – Sarebbe complicato cercare di elencare in questa sede le ragioni e le origini di questi sentimenti anticalabresi, di cui mi sono occupato in alcuni lavori. Tra queste potremmo accennare a un atteggiamento etnocentrico nei confronti dell’altro, all’ostilità nei confronti di popolazioni con usanze diverse che si opponevano alla conquista di nuovi invasori e, in epoca moderna, a una superiorità supponente delle nascenti borghesie dell’Europa del Nord nei confronti delle popolazioni italiane in genere e, successivamente, meridionali, che cominciano ad essere considerate poco adatte alla modernità, indolenti, oziose, apatiche; una sorta di orientalismo (alla Said) o di mediterraneismo interno all’Europa. Inoltre, una storia complessa, segnata da invasioni, catastrofi, terremoti, alluvioni, carestie che generavano spostamenti di paesi e di popolazioni, alimentava forme di vagabondaggio e di brigantaggio ed era all’origine di quella “melanconia da catastrofe” di cui ho parlato cercando di risalire alla costruzione del topos del calabrese melanconico, cupo, triste, violento. Spesso, l’immagine era in realtà la proiezione di uno stato d’animo dell’osservatore oppure l’interpretazione errata di comportamenti legati a condizioni di marginalità, precarietà, indigenza, fame. Fatto sta che, nel tempo, la Calabria – che nel passato aveva avuto una sua centralità (dalla Magna Grecia ai greco-bizantini, da Barlaam a Campanella) – a inizio Ottocento è ormai una terra lontana, irraggiungibile, incomprensibile, persino esotica e certamente difficile da raccontare come acutamente osservava Alvaro.

Proprio il riferimento a Campanella però fa capire come le rappresentazioni che i calabresi danno, nel tempo, di sé stessi, sono sempre condizionate dallo sguardo esterno che è, a seconda dei casi, contestato o interiorizzato. Campanella, uno dei maggiori pensatori europei del suo tempo, che critica e combatte baroni, ipocrisie, spagnoli, che certo è autore quanto più lontano da retoriche identitarie, si sente costretto a riprendere e riproporre la mitologia delle origini relativa alla Calabria per contrastare luoghi comuni anticalabresi allora in auge. Almeno a partire dall’epoca moderna, un compito altrettanto davvero difficile spetta agli intellettuali e agli studiosi calabresi: fare sempre, qualsiasi cosa scrivano, una qualche dichiarazione preliminare di intenti, una difesa d’ufficio, per confutare quanto altri hanno scritto o detto. Ogni libro sulla regione, a partire da quel periodo, contiene sempre una sorta di sofferta, obbligatoria, necessaria premessa, una pars destruens dei luoghi comuni, dei pregiudizi, degli stereotipi esistenti sui luoghi di cui ci si intende occupare. L’orgoglioso sentimento di sé, del luogo di appartenenza, fondato sul sentirsi eredi di una tradizione antica e nobile, fatta risalire a un passato lontano, spesso dalle linee mitiche e leggendarie, e poi al mondo classico (al periodo magno greco e  romano). Talvolta l’eredità invocata è quella delle popolazioni italiche, dell’interno, dei Bruzi dal carattere indomito e tenace, mai del tutto vinti dagli invasori che si sono succeduti nella regione.

Ancora ai nostri giorni è raro leggere un’opera di saggistica o di finzione sulla Calabria in cui l’autore non affermi di voler confutare luoghi comuni sulla regione e di mostrare la vera e genuina Calabria, naturalmente la sua. Prima di parlare di sé, i calabresi debbono contrastare le dicerie e le calunnie costruite all’esterno. Bisogna sempre dimostrare qualcosa, controbattere a qualcuno. Come osserva Francesca Viscone, nel suo La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media (Rubbettino, 2005), dover dichiarare, giustificare, rivendicare la «propria identità a partire da ciò che non si è» è una sorta di condanna.

Il carattere subdolo e perverso degli stereotipi è che costringono gli interessati a difendersene e spesso li spingono a rispondere con stereotipi di segno contrario, con retoriche identitarie. Per contrastare il pregiudizio anche i locali hanno spesso ceduto al luogo comune, alla retorica, o hanno elaborato immagini ostili nei confronti degli altri. Non di rado, per rigettare le immagini negative, si è scelta la via della chiusura, della difesa ad oltranza, della rinuncia alla critica dei limiti, dei contrasti, degli aspetti meno edificanti della propria storia e della propria realtà.  Si origina così una tendenza a negare tutte le immagini e le descrizioni che arrivano dall’esterno. Il risultato perverso di questa gratuita costruzione di immagini negative (talora anche interne) è quindi che tendono a generare risposte risentite e difese d’ufficio retoriche e spesso edulcorate.

Per contrastare certe immagini stereotipe si finisce con l’indicare come frutto di ostilità e di erronea generalizzazione tutto ciò che viene scritto o detto sulla regione. Siamo descritti, a volte con grande coraggio, come terra dove la ’ndrangheta esercita un grande controllo con violenza ed ecco, qualcuno, risentito, pronto a dire che non è così, che non bisogna generalizzare, che bisogna parlare di un’altra Calabria. E puntualmente arrivano i richiami all’ospitalità, all’accoglienza, alle bellezze dei luoghi, magari devastati proprio da coloro che si affannano ad esaltarli.

Immagini ostili alle popolazioni dal Sud,  rappresentazioni locali e dipendenza dallo sguardo esterno.  Il fuoco delle immagini esterne genera nell’osservato l’atteggiamento di chi sente assediato, di chi diffida, di chi vede nemici dappertutto. Anche quando le immagini sono positive, ci si riferisce ad esse quasi solo per legittimare e dare maggiore consistenza alle proprie osservazioni, e finiscono per avere un’accoglienza “prevenuta” da una lunga storia di incomprensioni. Più in generale c’è una sorta di paura delle immagini esterne, del giudizio degli altri. Si attende con apprensione ed ansia un libro o un articolo di qualche autore importante che sta scrivendo della Calabria. E dallo sguardo esterno spesso si attendono elementi di riconoscimento, o di valorizzazione.

Proprio a causa delle negazioni o dell’attesa dei riconoscimenti esterni, quella dei calabresi appare spesso una costruzione identitaria risentita, talvolta rancorosa, sempre spinta dal bisogno di dimostrare qualcosa. Una psicologia che finisce col rendere i calabresi davvero patologicamente melanconici, insicuri, sfiduciati, complici del gioco degli sguardi. In tutti i casi, ne deriva sempre una sorta di “soggezione” di fronte a quello che di noi è stato detto o non detto.

Questi meccanismi, quindi, accentuano introspezioni esasperate, chiusure, risentimenti che finiscono col confermare gli stereotipi che si vogliono negare. Sarebbe interessante mostrare come questi comportamenti e sentimenti siano stati amplificati dal modo coloniale e violento con cui è avvenuta l’unificazione nazionale, dal paradigma razzista antimeridionale di fine Ottocento-inizio Novecento che, anche in presenza di fenomeni di attenuazione della distanza tra le due Italie, permane sempre in maniera sotterranea e reciproca, sotto forma di sentimento antimeridionale al Nord e al Sud come atteggiamento di disagio, amarezza, rivendicazione, protesta nei confronti del Nord. Bisognerebbe citare il ruolo diverso di fenomeni che avvengono in una cornice nazionale come l’emigrazione, la Grande Guerra, l’attenzione superata per la «questione meridionale», le lotte contadine nel Sud del dopoguerra, la «riscoperta» del Mezzogiorno d’Italia negli anni Cinquanta, il grande esodo al Nord dei contadini e braccianti meridionali, le lotte ope­raie e studentesche che parlavano di «Nord e Sud uniti nella lotta». Ma l’inizio degli anni Novanta coincide con una rottura politica e culturale, che, per la prima volta, porta a un’esplicita posizione separatista. L’antimeridionalismo – il rifiuto di qualsiasi discorso critico sulla specificità storica e culturale del Mezzogiorno – e il rancore per i meridionali sono alla base  dell’ideologia razzista e della «doppia morale» dei dirigenti leghisti. Maledizione, bruttezza, degenerazione, barbarie, sporcizia: il vocabolario dell’antropologia positivista serve a dare voce a un nuovo risentimento e solidità a una forza politica che intercetta il malessere di ceti popolari insicuri. Vengono augurati ed auspicati terremoti, pena di morte, cancellazione del Sud dalla carta geografica. Mafie, ceti politici corrotti e clientelari, professionisti collusi con la criminalità si rendono protagonisti di episodi inquietanti e di vicende cruente che finiscono per portare acqua al mulino dell’ideologia leghista. Alimentano e servono a implementare lo stereotipo, l’ostilità, la diffidenza, il rancore antimeridionale. La comprensibile esigenza di respingere un’indiscriminata criminalizzazione e la trasformazione dei meridionali in bestie, barbari, esseri feroci spesso sortiva come risposta il ritornello che i calabresi sono tutti onesti e bravi lavoratori. Quella che si determina in quel periodo è una profonda frattura culturale di cui non ci si rende conto fino in fondo.

Il rischio individuato da alcuni studiosi (ricordo Giovanni Russo e Isaia Sales) era che alle tendenze scissioniste del Nord il Sud potesse rispondere con mitizzazioni e rimpianti filoborbonici, scendendo sul terreno «separatista» prediletto dai leghisti negli anni diventa concreto. Quando sarebbe stato il tempo, forse, per assumere un altro atteggiamento rispetto al recente passato e al presente, si preferì invece continuare lungo la strada più facile dell’indulgenza e della tolleranza, dell’autocompiacimento e dell’autoassoluzione. Si affermava un’identità per “difesa”, per risentimento, per reazione, che spesso dava luogo anche a posizioni localistiche e di ingenuo rivendicazionismo, prefigurando a volte una “superiorità” o una “diversità” astorica del Sud, inserito quasi sempre nel contesto Mediterraneo. Queste trappole identitarie finiranno, paradossalmente, per incrociarsi al Sud con forme di populismo di sinistra, leghismo, revisionismo neoborbonico. Si affermano negazionismi che vorrebbero sostenere una differenza tra antica l’ndrangheta, che avrebbe un’anima ribelle e popolare, e la grande holding criminale moderna.

 

Tra autodenigrazione e autoesaltazione – Anche i recenti episodi per cui la Calabria viene considerata insalvabile e inspiegabile sono frutto di scelte politiche, di mancata soluzione dei problemi, di corruzione dei ceti dirigenti; tuttavia non si può non sottolineare ancora una volta la dipendenza dallo sguardo esterno. Si oscilla tra autodenigrazione e autoesaltazione, atteggiamenti di antipolitica e soggezione alle clientele, rabbia nei confronti di tutti e tendenza a dare sempre la colpa agli altri, in alcuni casi a legittimare ogni forma di ribellismo. La soggezione dallo sguardo esterno e la decisione di affidarsi ad altri (Muccino o i Commissari alla Sanità) spesso portano ad esasperare la costruzione di immagini enfatiche, retoriche, estetizzanti per cui si rischia di diventare anticalabresi se si parla anche dei problemi e delle devastazioni della regione. Il mito della “natura incontaminata” ha nascosto troppo spesso speculazioni edilizie, cementificazioni, fabbriche di immondizie. Non bisogna dimenticare le distruzioni insensate del paesaggio, non rispondenti ad alcuna logica che non sia quella dell’ignoranza e degli interessi dei nuovi arricchiti. Case incompiute, pilastri di cemento armato sulle spiagge, palafitte erette da “nuovi primitivi”: sono solo alcune delle perturbanti rovine postmoderne che quotidianamente pongono domande inquietanti. Il drammatico e dirompente fenomeno dell’ecomafia avviene in un contesto in cui si sprecano i progetti legati al turismo, alla pubblicità enfatica di una “Calabria mare e sole”. Così si organizza un’ennesima e perversa retorica. Anche la bellezza è stata invocata, al Sud, senza “persuasione”. A ricordarcelo è anche l’alluvione di Crotone, che sembra la replica della precedente del 1996 e di mille alluvioni che dal 1951 colpiscono rovinosamente la Calabria. Mai interventi definitivi e mirati, sempre interventi precari che alimentano una economia e una cultura delle catastrofi.

Tra sottoterra e cielo: le identità mobili di una terra complessa e ricca di contraddizioni – Il problema è politico e le soluzioni sono politiche,  ma c’è una politica delle immagini, delle rappresentazioni, delle narrazioni che dobbiamo considerare.

Il punto è che non esiste un’identità monocromatica. Non esiste una Calabria, ma tante Calabrie come, non a caso, si diceva in passato. La Calabria ossimoro, terra di contraddizioni e di ambivalenze, delle identità e delle disidentità, che soltanto uno sguardo superficiale presenta in maniera granitica. Terra bruciata dal sole e bagnata dalle piogge, di inverni rigidi e stagioni calde, degli ottocento chilometri di costa e del novanta per cento del territorio montano e collinare, del radicamento e delle fughe, degli abbandoni e delle continue pazienti riparazioni, della limitatezza e dell’infinito, dell’adesso vengo e del non arrivo mai, della pietas profonda e delle violenze più cupe, degli amori e degli odî interminabili o effimeri, del planctus religioso e utopico, che interseca anche la denuncia sociale, e delle bestemmie più terribili.

La Calabria delle mille attese e delle mille delusioni, delle tante speranze e dei tanti disincanti. Ogni cosa, dalle nostre parti, può diventare il suo contrario. Ci sono il cielo, le virtù, la pazienza e l’ospitalità, la pietà, ma c’è anche il sottoterra, i rancori, i vizi, gli odi, i litigi. C’è un cielo luminoso, ma c’è anche un’infernale spietatezza. Ci sono la luce e il sole, ma ci sono le ombre e le oscurità. Ci sono aspetti luttuosi, melanconici, ombrosi nella mentalità e nell’antropologia delle popolazioni, collegati a una storia complessa e difficoltosa, a guerre, invasioni, catastrofi, che non vanno esaltati ed esasperati, ma riconosciuti, compresi, assunti.

Con una bella immagine di padre Pino Stancari nel suo La Calabria tra sottoterra e cielo (Rubbettino, 1997), la Calabria è tra sottoterra e cielo: un sottoterra che allude a viscere sotterranee, a profondità che non appaiono superficialmente e non sono facilmente discernibili. Il sottoterra ha una sua ambiguità: o voragine possessiva e rapinatrice oppure profondità sotterranea che è in grado di esprimere una capacità di accoglienza sorprendente. Anche il cielo ha una sua ambiguità: il cielo che può essere inteso come fuga, scivolamento nel mito o invece come apertura, grande prospettiva, capacità di slancio, prontezza nel volgersi all’altrove. Le ambiguità che legano sottoterra e cielo ci spingono ad andare oltre una logica apparentemente paradossale. C’è una corrispondenza speculare tra l’abisso che si spalanca sotto e dentro di noi e il cielo luminoso e largo. C’è una parentela, che ci suggerisce un percorso da compiere fuori e dentro. Le contraddizioni, i contrasti, tutti i toni grigi del Sud sono stati segnalati nei secoli e anche di recente dagli intellettuali più lucidi, più sofferti, che non hanno avuto paura di chiamare le cose con il loro nome. Le ombre sotterranee dei cavi nel terreno degli ’ndranghetisti, le città doppie e buie, costruite sotto le case dei paesi e nei boschi, sono il più inquietante aspetto di questo lato oscuro delle mafie.

Le ombre non si negano, non si occultano, vanno riconosciute, assorbite e così anche la luce e il cielo non si raggiungono con i proclami. Bisogna accendere faville, come diceva don Mottola. Possiamo essere orgogliosi delle nostre virtù, se sappiamo riconoscere e assumerci anche i vizi; possiamo elogiare e commuoverci per le bellezze, se sappiamo indignarci per le distruzioni che abbiamo compiute; possiamo gloriarci della nostra accoglienza, se riconosciamo i nostri rifiuti. Dobbiamo riconoscere i lati ombrosi della nostra storia collettiva ed individuale. Dobbiamo scrutarci senza indulgenza. Senza autolesionismi, ma senza semplici autoassoluzioni. Vedere il sottoterra e riuscire a staccarsene non è facile: le responsabilità non sono sempre altrove, sono anche qui, sono anche nostre. L’autoascolto e l’autosservazione non debbono tradursi in sterile rimpianto, in inutile compiacimento, ma in una capacità di fare i conti con il proprio passato per affermare una diversa presenza. Nel Sud, che ha conosciuto storie di contrasti e di conflitti, dove le identità sono spesso frammentate e lacerate, dove sono mancate la mediazione e la conciliazione, dove davvero gli opposti si toccano, e sentimenti e comportamenti sono, nel bene e nel male, eccessivi ed esasperati, bisogna avere la capacità di scrutare le zone in chiaroscuro, di rintracciare l’indistinzione.

Riconoscere e combattere le ombre: un’identità dell’essere e del fare come progetto per cambiare radicalmente lo stato delle cose  – Ai tempi di Croce (Il paradiso abitato dai diavoli, 1923) il proverbio «un paradiso abitato da diavoli», rinverdito dagli antropologi positivisti, non aveva perso ancora la sua fortuna anche se le antiche immagini erano ormai sbiadite. Si può tollerare o biasimare lo stereotipo, scrive Croce, che suggerisce di non liquidarlo ma di adoperarlo come pungolo perché possa «mantener viva in noi la coscienza di quello che è il dovere nostro». Croce disinnesca lo stereotipo: lo assume chiedendosi quali fossero le ragioni storiche e pratiche della sua diffusione, concludendo che «ci importa poco ricercare fino a quel punto il detto proverbiale sia vero, giovandoci tenerlo verissimo per far che sia sempre meno». Raccontarci noi le scomode verità, anziché negarle o farcele dire con cattiveria dagli altri. Senza paura di passare per disfattisti, amanti più della verità che degli elogi interessati. Olindo Malagodi, in  Calabria desolata (1905) invita calabresi e meridionali a non prendersela per le verità da lui dette, dal momento che sono le stesse popolazioni a dire «queste verità, e più amaramente con una specie di irritata coscienza del male e di disperata passione dei rimedi!». I rimedi non vanno attesi da fuori e le popolazioni debbono fare loro «la verità contenuta nell’antica massima: – Salus in te ipso». Era quanto, con versi di grande attualità, sosteneva Franco Costabile, poeta morto suicida: «Ecco/io e te, Meridione, /dobbiamo parlarci una volta,/ ragionare davvero con calma,/ da soli, /senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade./Noi dobbiamo deciderci/ con questo cuore troppo cantastorie».

La decostruzione dello stereotipo, secondo Croce, è possibile soltanto grazie a comportamenti e ad azioni che, di fatto, ne mostrano l’infondatezza. Da parte sua, Predrag Matvejevic’ ha ricordato, nelle sue opere, come il Mediterraneo, la patria dei miti, abbia sofferto di mitologie che esso stesso ha generato o che altri hanno alimentato. Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, senza riuscire a diventare mai un progetto. «La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non si identificano affatto. Un’identità dell’essere, amplificandosi, eclissa o respinge un’identità del fare, mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che lo stesso pensiero rimane prigioniero degli stereotipi». La rivendicazione d’identità ha un carattere estremamente vago, dissimula più di quanto non chiarisca. Il pensiero dell’«essere» è un pensiero dell’identificazione. Occorre elaborare un concetto di identità aperto, mobile, in cui l’interrogativo prevale sulla risposta, l’essere sul fare.

La linea d’ombra, in un famoso racconto di Conrad, segnala quel confine che bisogna saper superare per affrontare una nuova vita, per affermare una diversa soggettività. Bisogna discernere quella linea per attraversarla, lasciandoci alle spalle le lamentele e l’autocommiserazione. Non è facile, perché la linea d’ombra ha una storia lunga e non appare facilmente individuabile; richiede, appunto, di saper guardare in chiaroscuro.

In un altro romanzo di Conrad, Il clandestino, il protagonista, incapace di assumere il comando della nave a cui è stato assegnato, riuscirà a dare ordini decisi all’equipaggio solo dopo avere incontrato a bordo un suo doppio clandestino. La scoperta del doppio può preludere alla possibilità di smarrirsi, ma è anche l’inizio di una diversa conoscenza di sé, presa d’atto delle proprie capacità nascoste e  via di salvezza.

Questa opera di riconoscimento e assunzione dell’ombra richiede un rovesciamento di prospettiva e di sguardo; di far prevalere la persuasione su quella retorica che circonda tanti sguardi sul Sud e del Sud.

L’identità va vista come un esito di un’esperienza aperta di costruzione. Un fare insieme. Un cantiere aperto. Bisogna assumere una concezione processuale, dinamica, aperta e relazionale dell’identità. Un progetto che ci mette in gioco. La “calabresità”, intesa come identità pura e monolitica, quasi monocromatica, ha i suoi categorici e indimostrabili presupposti, ha anche i suoi corollari, sui quali bisognerebbe soffermarsi a lungo. Una delle conseguenze della costruzione di una sorta di riserva, scampata alle contaminazioni e ai processi di modernizzazione, è il proliferare dei suoi custodi, di quelli che sanno pesare il “tasso di calabresità” dei corregionali rimasti o partiti, che consegnano una sorta di patente, che giudicano il senso di appartenenza.

 

Un nuovi modo di riguardare e nuove pratiche di incontri – Quello che serve è invece una prospettiva che affermi la centralità dell’esperienza dell’incontro, dell’accoglienza, del dialogo. Cogliere le trasformazioni, i mutamenti, le novità, le incurie, le bellezze, gli scarti, le devastazioni. Bisogna essere disponibili alla sorpresa e allo stupore, all’incanto e allo spavento. È necessario  scoprire la vocazione religiosa del viaggiare, che da queste parti ha sempre a che fare col tornare. Rimettersi in cammino, guardare e vedere, osservare, condividere, raccontare. Una diversa etica dell’erranza e della restanza. Del partire e del restare, che non si contrappongono più, ma si rinviano. Avere riguardo, avere lo sguardo fuori e dentro di sé, ascoltare ed auto-ascoltarci. Per trovare una possibile via d’uscita alle trappole identitarie e al razzismo  subdolo o esplicito che, non dobbiamo dimenticare, in altri luoghi del mondo producono anche etnocidi e massacri di popolazioni intere, necessitano scelte coraggiose di pace, per affrontare i problemi in maniera diversa da come hanno fatto colonialismo, capitalismo, globalizzazione. Occorrono pensieri, pratiche, politiche antirazziste degli Stati, dei gruppi, degli individui. Servono scelte per il mondo, senza pensare che la salvezza del nostro piccolo fortunato universo sia possibile rinchiudendoci in noi stessi. Siamo tutti nelle stesse acque del pianeta, nelle nebbie delle galassie, nel vortice dei venti. E tuttavia dobbiamo partire da noi, dalla nostra storia, capire, comprenderci e assumerci le nostre responsabilità, rifondare nuove comunità, inventare nuove modalità e nuove pratiche per riabitare la regione, con un progetto di rigenerazione e di rinascita dei luoghi.

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