Già qualche anno fa Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, nel loro Contro le mostre (Einaudi, 2017), denunciavano il prevalere della logica dell’evento-esposizione temporanea rispetto a quella del museo-collezione stabile: «mostre di cassetta, culturalmente irrilevanti e pericolose per le opere» funzionano da grandi attrattori per il pubblico, mentre il sistema museale italiano non è ancora riuscito (ma ci ha davvero provato?) a completare la transizione da circolo per iniziati a luogo virtuosamente comune di identità civile. Per questo passaggio servirebbero soprattutto risorse umane: come nessuno penserebbe a una scuola senza insegnanti, così non si dovrebbero poter pensare i musei senza personale scientifico ed educatori museali, altrimenti la cosiddetta «educazione al patrimonio culturale» (nome di una direzione generale del MiBACT) resta solo una medaglia appuntata sul petto di generali senza esercito.
La nuova tendenza che inizia a imperversare, invece, è quella della «mostrificazione dei musei» (sempre Montanari-Trione), come è successo alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma (GNAM, secondo l’orrenda moda degli acrostici, in cui l’economia – risparmiare lettere ‒ fa letteralmente a pezzi la lingua). La neo-direttrice GNAM Cristiana Collu nel 2016 ha voluto un nuovo allestimento in forma di mostra intitolata “Time is out of joint” che, pensato inizialmente come temporaneo, è diventato invece permanente, visto anche il successo di pubblico: sale svuotate per ospitare poche opere, accostate senza nessun criterio esplicito né esplicitato, lasciate alla percezione del visitatore, superficialmente gratificato dal fatto che così non c’è niente da capire, nessuno sforzo da fare. “Videre, non intelligere”, potrebbe esserne il motto, perfetto per la società dei voyeurs che siamo diventati. Come ha detto lo storico dell’arte Claudio Gamba, «in questa operazione, di una arroganza curatoriale senza precedenti, si è proceduto con la falce (e in certi casi anche con il martello), cancellando ogni traccia dei precedenti allestimenti (frutto di decenni di studi e ricerche), smontando tutto l’impianto storico e soprattutto rispedendo nei depositi gran parte delle collezioni ottocentesche, che la Collu ha detto chiaramente di non conoscere» (https://www.finestresullarte.info/interviste/intervista-claudio-gamba-nuovo-allestimento-gnam).
Ma per mostrificare una collezione, oltre a falce, martello e frullatore, si può anche rifarsi ai videogiochi, con l’one shot: sparare contro il visitatore un colpo solo, quello del capolavoro “iconico” (e chiedo perdono per essere qui costretta a contribuire all’abuso del termine). Questo equivale ai must-have della moda, operando sullo stesso meccanismo di rassicurazione: sono cool perché ho le scarpe Gucci, sono colto perché ho visto “il” quadro che bisogna vedere. Ed essere colti è così facile, basta quella manciata di minuti di sosta di fronte a un’opera, come davanti alla reliquia di un santo. Anche qui non c’è niente da capire, solo ammirare.
Si appresta a diventare l’ultima vittima di questa sindrome la Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza, inaugurata nel 1931 e che oggi ha deciso di puntare tutto sul suo Klimt, definito sul sito del museo proprio così, “il Klimt” (non importa quale, evidentemente, visto che basta la firma, come fosse un marchio aziendale). “Il Klimt”, oltre a essere opera di un artista molto famoso, ha guadagnato in appeal – sì, facciamoci del male con ancora un po’ di lingua da pubblicitari – perché è stato al centro di un giallo: un misterioso furto nel 1997 e un altrettanto misterioso ritrovamento casuale in un’intercapedine di un muro esterno del museo stesso, l’anno scorso. Una vicenda non ancora del tutto chiarita e documentata sul sito del museo salomonicamente solo tramite un’asettica rassegna stampa, visto che non si esclude il coinvolgimento dell’allora direttore Stefano Fugazza, che secondo un’ipotesi basata sui suoi diari avrebbe progettato un finto (?) furto per pubblicizzare la mostra allora programmata a Piacenza Da Hayez a Klimt. Il furto era avvenuto proprio poco dopo un’altra scoperta casuale: una liceale impegnata in una ricerca scolastica si era accorta che il dipinto di Piacenza poteva celare un’opera di Klimt ritenuta perduta, oggetto di una parziale ridipintura.
Così, carico di tutti questi motivi di interesse extra-artistici, il Ritratto di signora di Gustav Klimt si è guadagnato sul campo il titolo di star della collezione, preparandosi a occupare da solo un’intera sala a partire dal 28 novembre, con tanto di countdown sempre sul sito www.riccioddi.it.
Questa scelta, dettata evidentemente più da motivi di marketing che scientifici, oscura e tradisce la ricchezza di un museo singolarissimo, frutto della donazione di un unico mecenate, il nobiluomo piacentino Giuseppe Ricci Oddi (1868-1937), che non solo donò alla città tutta la sua collezione ma fece anche appositamente costruire un edificio per ospitarla, pensato in funzione dell’allestimento, caso davvero raro. Si tratta di un gruppo di opere datate a un giro d’anni relativamente ristretto, dalla metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento, suddivise per provenienza geografica, tanto da costituire una sorta di giro d’Italia nell’arte, dal Piemonte alla Lombardia, dall’Emilia alla Toscana, dal Veneto a Napoli. La volontà di Ricci Oddi era proprio quella di costituire un ritratto, se non esaustivo almeno abbastanza più vasto del proprio gusto personale, un documento che avrebbe dovuto fare di Piacenza un punto di riferimento importante nel campo dell’arte moderna.
Rispetto alla formazione storicamente complessa e multiforme della maggior parte dei nostri musei, la Galleria Ricci Oddi avrebbe dunque, nel presentarsi al pubblico, la fortuna di portare già in sé una linea chiara e un senso definito in partenza grazie alle scelte di colui che l’ha creata. Suona perciò paradossale che la Galleria non valorizzi proprio questa dimensione, in un’epoca in cui si sfornano in continuazione mostre incentrate proprio su questo stesso periodo e su questi stessi artisti, dall’onnipresente Boldini ad Hayez, De Nittis, Fattori, Segantini ecc., peraltro col pregio di allargare l’orizzonte ad altri nomi che permettono di formarsi un’idea molto più interessante e ampia del contesto. Ancora più paradossale che in alcune di queste mostre abbiamo visto varie opere provenienti dalla Ricci Oddi, a conferma che il destino di certi musei minori sta diventando quello di prestatori/portatori d’acqua al mercato delle mostre.
Si potrebbe obiettare che i visitatori attirati da Klimt vedranno anche l’intera collezione, che quindi sarà conosciuta e apprezzata da un maggior numero di persone, visto che fortunatamente l’operazione non ha comportato uno stravolgimento generale dell’allestimento. Ma il guaio sta nell’idea che serva un’esca per attirare il pubblico in un museo, esattamente come per le mostre, in cui è il grosso nome a tirare.
Non è sempre ripugnante l’adescamento? Fa differenza essere adescati a entrare in un museo piuttosto che in un centro commerciale? Proviamo invece a spalancare le porte dei musei pubblici rendendo l’ingresso gratuito, rendiamoli luoghi in cui si è accolti da persone competenti che li amano e hanno voglia di raccontarci perché, trattiamoli alla stregua delle piazze delle città, luoghi di incontro e di scambio. Se siamo convinti che ciò che contengono è importante, non possiamo avere dubbi sul fatto che pian piano si popoleranno, come si espande la vegetazione in un bosco.