Nel settembre del 2007 Stefano Luca si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano interpretando il criminale protagonista di Roberto Zucco di Bernard -Marie Koltès.
In ottobre entra nell’ordine dei cappuccini portando con sé la sua esperienza teatrale per utilizzarla come strumento in carceri, campi profughi, strutture di recupero di tossicodipendenti o di bambini-soldato.
Uno dei primi interventi di fra Stefano è in Camerun con i ragazzi rinchiusi nella Bamenda Central Prison insieme ai detenuti adulti, dato che in Camerun non esistono carceri minorili. Lo spazio degli incontri: un cortile in terra battuta, chiuso da mura, su cui si aprono i bassi edifici delle camerate; i protagonisti: una quindicina di adolescenti che dovrebbero costruire insieme uno spettacolo teatrale.
Per molti giorni Stefano Luca li impegna in esercizi puramente fisici a metà tra il gioco e l’acrobazia, con due semplici regole fondamentali: anche quando si fa qualcosa di individuale bisogna sempre essere consapevoli della compresenza degli altri nello spazio; ci sono esercizi che è impossibile fare se non ci si fida del compagno con cui li si esegue. Una mattina alcuni di loro mostrano segni evidenti di aver fatto a botte e raccontano quanto è successo: durante la notte un adulto era entrato nel dormitorio per abusare di uno di loro. Era già successo e sempre avevan fatto finta di non vedere e non sentire; quella notte, per la prima volta, si erano resi conto di essere responsabili gli uni verso gli altri e avevano difeso il loro compagno. Ora erano un gruppo e Stefano cominciò a raccontare la storia con cui avrebbero creato il loro spettacolo.
Quella descritta è indubbiamente una situazione estrema, ma proprio per questo mi sembra che evidenzi in maniera chiarissima il valore “educativo” (proprio nel senso etimologico del termine: e-duco, traggo fuori) che ha la relazione con il corpo dell’altro nello spazio quando diviene motore di scoperta di sé e di cambiamento. E mi sembra utile rifletterci rispetto a due ambiti che più di altri soffrono in questi giorni della sua negazione: quello del teatro e quello della scuola. Perché, se è ovvio che il contatto a distanza sia al momento l’unico possibile (ed è giusto quindi cercare di sfruttarne al massimo le potenzialità), va mantenuta la piena consapevolezza che si tratta soltanto di un pallido surrogato che è pericoloso sopravvalutare.
Non c’è teatro se non nel rapporto, concreto, diretto, reale tra corpi che agiscono, reagiscono, scambiano e cambiano. Questo vale per l’interazione dell’attore con altri attori, ma anche con chi allo spettacolo assiste o, meglio, allo spettacolo partecipa. La semplice consapevolezza di essere esposto a più punti di vista e il percepire un’attenzione più o meno intensa cambiano la modulazione del gesto fisico e vocale dell’attore e nello stesso tempo lo spettatore si sente interpellato e avverte che anche semplicemente le modalità della sua presenza innescano un gioco coinvolgente di azione e reazione.
Anche perché, ed è l’altro tratto che rende essenziale la comunicazione teatrale, tutto ciò vale dato che avviene qui, ora: qualsiasi registrazione, anche la più perfetta, sarà sempre la riproposizione immutabile di un passato e non l’esperienza, effimera e preziosa, di un presente in svolgimento. Una volta, a Bologna, Carolyn Carson reagì violentemente all’idea di dover danzare senza l’orchestra dal vivo, perché le era impossibile farlo senza il respiro di chi suona. C’era un termine molto bello per indicare tutto ciò: “evento”, ma purtroppo il riferimento banale e inflazionato a una qualsivoglia occasione mondana lo ha reso inutilizzabile.
Questa relazione tra corpi, questa importanza fondamentale del qui e ora, del non differibile, del non ripetibile è una forma di comunicazione essenziale anche al di fuori dell’ambito teatrale. Penso alla scuola e alla deprivazione profonda di uno studente che non può collegarsi se non in remoto coi compagni e con gli insegnanti. Tralasciamo le difficoltà pratiche dei tanti che non dispongono di un computer personale, di uno spazio proprio in cui usarlo, di una connessione sicura: anche nelle più perfette modalità tecniche la scuola a distanza sottrae a un bambino o a un ragazzo l’esperienza fondamentale dell’altro come corpo reale, comunicante già semplicemente con il suo esserci, costringendolo così a confrontarsi sempre e comunque con un’immagine che gli arriva dall’ altrove e a cui non può rispondere che come altrettanto asettica immagine.
È fondamentale per uno studente lavorare in un gruppo disomogeneo, in cui ciascuno mette in comune le proprie caratteristiche (non necessariamente positive, ma fa crescere l’accettarle o il contrastarle, il conviverci, non l’occultarle). È essenziale interagire fisicamente con persone che non solo espongono idee o rispondono a domande, ma occupano molto spazio o stanno in disparte, hanno un certo timbro di voce, un certo odore, un certo modo di guardare, di partecipare o di astrarsi. Già ci sono classi che espungono in base alle possibilità economiche, classi che espungono in base alla maggiore o minore facilità di apprendimento, il tutto esaltando l’omogeneità come condizione per risultati di eccellenza. Non vorrei che ci si innamorasse di una condizione di studio che semplicemente elimina il corpo dell’altro, togliendo così definitivamente la possibilità di rapportarsi con la concreta presenza reale di una vita diversa e di entrare in contatto con corpi-mondi che interrogano e costringono a modificarsi.