Lavoriamo tutti in remoto: ma remoto non è una figura del tempo, anzi del passato? Dove è finita l’immunità del Presente da ogni altra misura del tempo, sia il passato sia il futuro? Remoto è la forma estrema di passato radicale: l’aggettivo nella versione spaziale fa pensare agli indigeni dell’Australia non all’Ufficio qualche strada più in là con cui ci si collega quotidianamente. Il nostro presente dispotico che pareva aver annichilito ogni altro mondo possibile sulla linea del tempo, dominato com’è da una ostinata quanto forse fine a se stessa accelerazione esponenziale, si riscopre attraversato – come da una sorta di gigantesca lancia medievale di un fantasy storico – dagli incubi di altre epoche. Attraverso in primo luogo le parole. E’ così che il nostro Presente, il segno ultratemporale di un Nuovo che riproduce incessantemente se stesso, si trova a fare i conti con una inedita Viralità – non alludo a reti e social – ma a quella più drastica e minacciosa delle antiche pestilenze, per alcuni di sapore biblico, per altri anche solo Tre-Seicentesche. Una contesa letale che sembrava fuori corso, quella fra il “Sempre Nuovo” del presente e il “Vecchio-vecchio” del passato si è improvvisamente materializzata nel Coronavirus (scritto tutto attaccato come fosse un prodotto da pubblicizzare). Si pensi anche al ritorno del significato originario “vecchio” di molti dei termini che rimbalzano sui nostri schermi o tra le colonne dei giornali. Nel riferimento continuo al Contagio che cresce (anche qui non parliamo di reti telematiche) nella riscoperta centralità dei corpi (perché sono i corpi a rischio e questa che si profila non è una “realtà aumentata”) nell’emergere di immagini semi-inconsce, un Vecchio-vecchissimo quasi di specie, che affiora sotto le parole dei politici o biopolitici più disarmanti (i topi di Zaia in effetti, che solo lui ha visto divorati vivi dai cinesi, erano sì causa epidemica ma in relazione alla peste del 1348).
E’ vero che, a ben pensarci, non è la prima volta che sprofondiamo nel minaccioso fronte a fronte tra Nuovo, globale, e Vecchio-vecchissimo. Torniamo per esempio al 2001 e all’attacco delle Torri Gemelle: un crash davvero simbolico tra il monumento per eccellenza del Nuovo e le sue torri e il volto che immaginiamo velato dei terroristi di Al Qaeda nelle caverne dell’Afghanistan. Non uno scontro fra civiltà quanto piuttosto il cortocircuito tra l’idea di inespugnabilità che ci eravamo fatti del nostro mondo e il “virus” di un terrore un po’ enigmatico che si è installato per qualche decennio nelle nostre vite. Forse, vien da pensare, siamo proprio noi Presentisti, pieni di certezze ma in fondo con vista corta, che il passato – mutante anche lui certamente (i virus come le ideologie) – non lo vogliamo vedere come se non accompagnasse la nostra vita, non fosse tutto intorno a noi, nel paesaggio che ci circonda col suo volto benevolo, inoffensivo, fragile, al più.
Ecco allora la duplice lezione che ha a che fare col tempo e insieme con lo spazio che questa pandemia ci insegna. Dobbiamo anzitutto darci un nuovo senso del tempo che non è solo velocità, accelerazione come status symbol ma durata, tempo sedimentato che tutela le cose che valgono. Non tempo come merce di consumo. Tanto è vero – in molti hanno fatto osservare il paradosso – spesso chi lo usa come un bene di consumo non ha mai tempo. Il tempo non può continuare a essere un prodotto industriale perché per questa via è diventato una merce come le altre, a scadenza, un vuoto a perdere. Mentre, al contrario, solo una presa di distanza dal tempo ci garantisce di stabilire le cose che durano cioè che contano.
Durata come valore. Due termini che abbiamo volutamente dimenticato nella loro associazione. Mentre il virus corre a velocità esponenziale, sconvolgendo la vita di tutti noi e l’ordine mentale cui eravamo assuefatti, credo che valga la pena riscoprire, in queste settimane, ormai mesi, di autoriflessione che il tempo interno ci ha imposto, le diverse velocità di scorrimento del tempo stesso: rivalutando le dimensioni multiple che lo compongono (per tutelarlo dall’autoannientamento come sta succedendo adesso) e in particolare quello scorrimento di lunga durata dentro il quale possiamo traghettare nel presente le cose che davvero contano per noi. Solo decelerando, costruendo argini, isole di tregua, si potrà fra l’altro allentare i morsi di quella crescita infinita che poi infinita, lo sappiamo, non può essere, “dando tempo” al pianeta di ricostituire le proprie risorse ambientali.
Tempo, si diceva e spazio. Un altro insegnamento che la lezione dura, severissima che la pandemia ci sta impartendo, è quella di ripensare ai territori, perché è lì tra l’altro che si sta giocando la partita col virus, nelle nuove solidarietà di prossimità (oltre che di distanziamento) espresse da tanti, volontari, medici, infermieri, piccoli commercianti, nuovi possibili rappresentanti dei diritti dei cittadini nel futuro in tante aree del nostro Paese, al di là delle inerzie e delle retoriche delle politiche delle amministrazioni regionali. Comprendere, oltre la soglia invisibile degli scambi su cui ha corso con la stessa velocità e invisibilità il virus, la crucialità delle tradizionali zone agricole, col lavoro dei tanti invisibili (spesso migranti) anche loro, che ci consentono la sopravvivenza. Nell’intento come ha scritto Richard Sennet, di affrontare la sfida di un mondo “al rovescio”, non la fine del mondo. Recuperando anche un’idea diversa dello spazio e dell’abitare: pensando, nelle città pericolosamente addensate, a poli di decentramento, punti di aggregazione da raggiungere a piedi. Case di piccole dimensioni, meno grattacieli con centinaia di abitanti e una decina di ascensori. Proprio perché, come è stato anche in tempi lontani, la gente non abbia più timore (e l’ha avuto anche a prescindere dal virus) della prossimità solidale. Non come altro da sé ma come risorsa per ricostruire le nostre vite forse insane da tempo.