«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia».
Era il 1629. Manzoni ripercorre il dilagare del contagio nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi, rimandando alla Storia della colonna infame, in appendice all’edizione del 1842, per un ulteriore approfondimento. Il saggio ricostruisce il processo agli untori del 1630 ed è stato più volte citato in questi giorni per le possibili analogie con la stigmatizzazione dei cinesi nella diffusione del coronavirus SARS-CoV-2.
Ai parallelismi storici preferisco tuttavia la rilettura del romanzo. Primo perché, come avverte Montale, «la storia non è magistra / di niente che ci riguardi»: essendo ogni situazione unica e libera, «la sua direzione non è nell’orario». Poi perché l’arte la oltrepassa, con uno sguardo più ampio e profondo sull’animo umano che ne è motore. Ed è esattamente questo che fa Manzoni usando il Seicento per parlare del suo secolo, autorizzandoci quindi anche filologicamente a fare altrettanto. Lasciando, s’intende, la questione medica a chi di dovere. Dove oltretutto conterà come sempre il bilancio complessivo, conseguenze sanitarie collaterali, psicologiche, politico-economiche e oltre comprese, essendo la salute, secondo la definizione proposta nel 1998 dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, uno «stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia». Dove si notino anche gli ultimi termini dell’equazione. Non si può insomma elevare troppo presto la cronaca a storia né limitarsi a una visione parziale e di settore. Per l’appunto l’invito di Manzoni in calce a quei capitoli è proprio a «osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare».
Nel Seicento il rischio fu sottovalutato da autorità, medici e popolo (che preferì non vedere, già vessato dalle preoccupazioni della guerra). Ma quel che trovo interessante, al di là di questa, non trasferibile, specifica che riguarda una peste che uccise un quarto della popolazione (con picchi del 40% in alcune aree geografiche), è che già gli storici dell’epoca si fissarono su un dettaglio:
«vollero notare il nome di chi ce la portò il [per] primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi di una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca […], nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poteron essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che facciano trovare in essi […] qualche cosa di fatale e di memorabile».
Il fiorire degli articoli sui nostri pazienti zero. Dove il punto, anche per Manzoni, è che «sia come sia» il giorno dell’entrata a Milano fu comunque «prima della pubblicazione delle grida sulle bullette». Considerazione che ci rivela, a dispetto delle ricostruzioni di cui sopra, molto più impotenti di quanto vorremmo.
Da qui inizia il racconto dell’ira funesta «della nobiltà, delli mercanti et della plebe» per le conseguenti vessazioni. Ma, ancor più, di quella «cieca e indisciplinata paura» che, unita alla «cattività [cattiveria]», aumentò a dismisura il danno, a causa della «grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento». Del resto la paura causa istintivamente tre reazioni: aggressività, fuga, paralisi (la tanatosi degli animali). E, continua il capitolo XXXII,
«la collera aspira a punire: […] le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa fare le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi».
Così la folla o i più folli caricavano di pugni e calci i presunti untori, allora come oggi soprattutto gli sconosciuti, gli stranieri: «la frenesia s’era propagata come il contagio». Perché la forza del pregiudizio, commenta ancora Manzoni, è più forte dell’evidenza e le persone finiscono spesso per aggiustare ogni ragione a seconda di ciò di cui sono già convinte.
«Il povero senno umano» insomma «cozzava co’ fantasmi creati da sé». Tanto che l’11 giugno 1630 si svolse una processione per scongiurare il pericolo, che ovviamente fu causa di ulteriore contagio. Gli illogici assembramenti nei supermercati mi pare ci somiglino un po’, più riti esorcizzanti che necessarie e razionali strategie: una razzia di pasta e cipolle che salvi il pasto nazionale, e con esso forse l’identità dalla più sotterranea minaccia di disgregazione esistenziale.
Certamente «il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare» direbbe Don Abbondio, che tuttavia il suo autore non perdona facilmente, chiosando che «spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso», mettendo nei guai degli innocenti. Senza dubbio, anche a non voler far propria la morale manzoniana, la paura chiude nell’egocentrismo. E se
«in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità […], purtroppo, non manca mai un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità».
E sono i «rubamenti» delle truffe inventate in questi giorni soprattutto a discapito degli anziani o coloro che «mettevano a prezzo i propri servizi», come è successo per le mascherine e l’amuchina. Ma anche la manipolazione della paura da parte di alcuni giornalisti e politici. Pur non essendo facile mantenere un giusto equilibrio, soprattutto nei primi momenti, la schizofrenica altalenanza tra l’alimentazione del panico e la sua irrisione testimonia l’urgenza di quelle fondamentali virtù di prudenza e temperanza che ci ricorda anche Vito Mancuso nel suo ultimo libro. Che non vuol dire affatto rimuovere il problema né sminuirlo oltremodo, ma solo evitare quel sensazionalismo e quella drammatizzazione istrionica che disvela anch’essa una sproporzione egocentrica, e quindi la mancanza di una centratura, di un senso radicato, che viene invece costantemente demandato a una ricerca esteriore di adrenaliniche emozioni.
Non ci si appelli però a un facile e conservatore o tempora, o mores! se anche per Manzoni «l’immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi molto più che il pericolo reale e presente», fino ad «alterare tutte le ragioni della fiducia reciproca» come ultima e più grave conseguenza. Insidiosa a tutti i livelli perché «da’ trovati del volgo, le gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia». Un’acuta analisi sociologica sulla «forza d’un’opinione comune», capace di agire «anche sulle menti più nobili». Dove «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Una follia che, nella vacuità delle iperboli espressive, rischia invece proprio di dimenticare chi la morte la sta vivendo da vicino, laddove i fattori, citati alla stregua di meri tranquillanti, dell’anzianità e delle malattie pregresse non annullano certo l’intimo dolore di ciò che è, e resta, una tragedia all’interno della misura di una vita. È l’episodio di Cecilia del capitolo XXXIV, se vogliamo trovare anche in questo caso un aggancio al romanzo, narrato con la struggente commozione di un lutto che acquista realtà non appena tocca personalmente.
Ma appunto le misure di precauzione di tutti noi andrebbero là direzionate, verso un arginamento sensato e solidale che, tenendo conto della mancanza di immunità di gregge e di vaccino per il nuovo coronavirus, si preoccupi di proteggere l’intera comunità, di cui fanno parte anche le persone più fragili. È questo alla fine il coraggio: superare, per quanto possibile, la dimensione di avarizia a favore di una condivisione di capacità e beni a favore della collettività. Non è ciò che risulta dai negozi e dalle farmacie svuotate, né dagli sciacallaggi online, anche se pure Manzoni lamentava che i casi virtuosi fanno certamente meno notizia.
Ma se l’emergenza fa per l’appunto emergere le fragilità del nostro animo e della nostra società, può essere anche un’opportunità per fermarsi a osservare ciò che è salito a galla, e quindi alla luce della coscienza. In fin dei conti che cos’è la crisi? Come la fortuna per i latini, non ha in sé una valenza ontologicamente negativa o positiva. Ha a che fare piuttosto con il giudizio e la valutazione, con la scelta e la decisione. A livello sociale e personale potremmo allora focalizzarci sulla tutela e sviluppo della sanità pubblica, sull’importanza dell’informazione e dell’istruzione, sul ricollocamento delle priorità, sul ridimensionamento dei bisogni, sulla ricerca di equilibrio e stabilità, sull’interdipendenza tra individui e collettività nella dimensione della globalità. Ma altresì sulla consapevolezza della fragilità umana, dove la paura è il peggior ostacolo all’amore. Oltre a cogliere, ovviamente, l’occasione per rileggere i Promessi Sposi o il Decameron o quant’altro ci venga in soccorso da quel grande bagaglio che è la cultura e che lo spirito umano non a caso ha costruito come baluardo in questi millenni. Infine al coraggio, con buona pace di Don Abbondio, ci si può allenare. Innanzi tutto allentando un po’ quell’ansia di controllo sulla vita, che ci deriva dalla presunzione che questa ci appartenga totalmente. Cessando di relegare il suo mistero di nascita e morte a tabù durante l’ordinario corso delle nostre esistenze, perché il fatto che non potremo mai arrivare a una definitiva chiarezza non può continuare a tradursi nell’eludere il discorso. L’unico, in fondo, che vale veramente la pena fare.
Sì, sono d’accordo con la Romolini su due punti: 1) sulla inevitabile, ossia ontologica e cosmica interdipendenza tra gli esseri umani e le cose, che si evidenzia proprio nei momenti in cui ognuno tende a marcare la propria indipendenza salvifica; 2) sulla presunzione che la vita ci appartenga totalmente, giacché è esattamente questo che rivela in noi l’attuale piaga maligna, cioè il nostro appartenere alla morte, il nostro dipendere da essa, il nostro non poterle sfuggire nonostante i più aggiornati artifici medici e culturali di differimento.
Un bellissimo articolo, molto utile, istruttivo e……ideale per far tornare allo scoperto quel buon senso (nascosto perché ha paura del senso comune).
Complimenti a Marica e grazie del suo contributo.
Silvia Manderino
Articolo molto lungo, ma ricchissimo di contenuti assai profondi e purtroppo inediti nelle pieghe/piaghe dei nostri intelletti, martoriati a loro volta da una simile oscena temperie.
Non ricordo, da decenni di letture su carta o web, un articolo così bello. Mi limito a suggerirne la rilettura affiancandolo al più modesto Robecchi di https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/04/e-la-legge-dei-mercati-quanti-nonni-siamo-disposti-a-sacrificare/5724814/.