Ibsen o dell’impotenza della verità

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“Un nemico del popolo” è un dramma del 1882 di Henrik Ibsen in cui si affronta il delicato e controverso tema della verità. Interessante la riduzione teatrale che ne è proposta in questi giorni da Massimo Popolizio al Carignano di Torino, specie per il ruolo del podestà ricoperto da una donna, Maria Paiato. Vi è trattato, appunto, il dramma della verità, consistente nel fatto, dialettico e quindi tragico e inquietante, che la sua “rivelazione” comporta insieme anche il velamento, cioè la negazione: la sua forza dirompente si manifesta assieme alla sua debolezza, la sua intuitiva semplicità implica la sua estrema complessità. Non per nulla alcune rappresentazioni artistiche la raffigurano in un nudo femminile nell’atto di coprirsi. Si veda, ad esempio, il bel monumento che Francoforte ha eretto Dem Genius Beethovens, al Genio di Beethoven, nel quale tuttavia il grande compositore renano, nell’atto di spezzare i lacci che lo imprigionano a se stesso, non si preoccupa di nascondere la sua nudità, superando con ciò stesso il ritegno che la verità suscita.

Con questa opera il drammaturgo norvegese mette in scena l’incapacità, e quindi l’impotenza, della verità di affermarsi dinanzi alle capacità, alle potenze e alle forze presenti nel contesto sociale in cui si manifesta. Eppure è indubbio che il protagonista – il dottor Thomas Stockmann – abbia ragione e sia nel vero quando, attraverso prove scientifiche, mostra a tutti, e ai media in primo luogo, che le acque termali della cittadina in cui abita e di cui è medico responsabile, sono inquinate e pertanto anziché guarire fanno ammalare (si sono registrati «casi di tifo e di gastrite»). Per quanto moralmente giusta e scientificamente fondata, questa iniziativa del dottore, condivisibile sul piano dei principi, risulta però improponibile sul piano pratico, cioè inattuabile. Per questo motivo il dramma di fine Ottocento dei cittadini di un paese della Norvegia sembra analogo a quello che vivono oggi gli abitanti di Taranto e i lavoratori della Ilva, dell’azienda siderurgica che ad un tempo dà ad essi lavoro e li fa ammalare di malattie mortali. Solo che il potere del colosso industriale ArcelorMittal non è quello di Yahweh, non è capace cioè di trasformare il male in bene, il fango in oro: da qui le difficoltà nel risolvere questa annosa questione tutta italiana. Ora, per quanto Stockmann incarni tutti gli elementi della debolezza della verità che annuncia (la sua vana magniloquenza ne è uno), e sebbene il personaggio del dottore non sia altro che “un critico autoritratto di Ibsen”, tuttavia non ci sembra che la figura del drammaturgo sia del tutto sovrapponibile a quella del medico, giacché quanto Claudio Magris osserva criticamente nei confronti dell’intellettuale Ibsen (cfr. la sua traduzione e il suo commento per la Garzanti, 1991) non vale per Stockmann, il quale propone almeno una soluzione precisa e radicale per le terme: bisognerebbe «costruire una fogna che possa ricevere le pretese immondizie che vengono dalla valle dei Mölle, e […] rifare l’acquedotto».

Fin qui tutto condivisibile, chiaro e limpido come la verità. Ma la vergognosa nudità che essa annuncia inizia a velarsi quando viene sollevata, da parte del sindaco della città (fratello del dottore, oltre che capo della polizia e presidente della sede termale), la questione economica: chi dovrà affrontare le ingenti spese per il radicale rifacimento delle sedi fognarie, visto che i primi finanziatori non intendono più sborsare una corona? Il costo dovrebbe essere sostenuto dalla comunità attraverso un ulteriore aggravio fiscale. Per non contare le perdite degli introiti a causa della chiusura dei bagni per almeno due o tre anni, necessari per lo svolgimento dei lavori. Dinanzi a questo nuovo possibile esborso, il popolo si ribella, sostenuto in ciò dai media, i quali all’inizio, sul piano dei principi, avevano appoggiato il dottor Stockmann, anche in vista di una eventuale rivoluzione politica, di un cambiamento della classe dirigente locale.

Fatto sta che, a causa della sua scoperta, il dottore, da amico del popolo, diventa nemico del popolo. Non solo verrà licenziato, ma anche la sua figlia maggiore, Petra, perderà il posto di insegnante, i due figli minori verranno malmenati a scuola, l’amico (il capitano di mare Horster) che l’aveva aiutato concedendogli uno spazio in cui tenere una conferenza per divulgare la sua verità verrà messo alla porta dalla compagnia navale. La sua stessa casa, dalla quale dovrà presto sloggiare per aver ricevuto lo sfratto, verrà violata dalla violenza del popolo. Alla fine il dottor Stockmann resterà solo con la prole. Un vero proletario. Era questa la sua condizione originaria, nella quale la moglie Katrine temeva di ricadere sin dal momento del manifestarsi dell’esaltazione del marito per la verità e per la lotta senza quartiere contro la menzogna. Una menzogna che egli dovrà amaramente riscontrare, in forma di colpevolezza e di collusione, persino tra i suoi stessi parenti: ad esempio nel suocero, dalla cui conceria proveniva parte dei liquami che contaminavano e ammorbavano le acque termali.

Nonostante tutto ciò e seppur ridotto all’impotenza, egli non si sente un codardo, non vuole (in realtà non può) lasciare il suo paese (sebbene gli sia balenata l’idea di imbarcarsi per il Nuovo Mondo) e donchisciottescamente intende continuare la sua lotta dentro la palude, cioè contro i mulini a vento, vale a dire contro la maggioranza moderata e compatta, quella che Magris traduce con «maggioranza democratica», perché ancora oggi – scriveva il saggista triestino negli anni Settanta del secolo scorso – dopo circa un secolo e mezzo (diremmo noi riportando le sue parole), la parola «democratico» ha «quell’ambigua carica di idealità e di retorica, di progresso e di falsificazione, di verità e di chiacchiera, di libertà e di slogan insita allora nell’aggettivo “liberale”».

Sì, Stockmann, come un Socrate redivivo, vuole battersi a viso aperto contro la menzogna, contro la deformazione, la falsificazione e la perversione insite nel sistema socio-politico, contro l’opportunismo dei media, contro «i liberali [che, come i “democratici” al tempo del filosofo ateniese] sono i più subdoli nemici degli uomini liberi», così come vorrà continuare a combattere per la ben rotonda verità, pur vivendo in mezzo a concittadini foschi e spigolosi, astuti e astiosi che lo odiano e vedono in lui un nemico. Come ulteriore offesa, il fratello Peter (figura tipica del politico fosco e astuto), sostenuto dai media, gli propone una vera e propria abiura, facendo leva sul fatto che il suocero del dottore ha investito tutti i suoi risparmi in azioni dello stabilimento di bagni e che pertanto, se Stockmann li vorrà avere come eredità da lasciare alla figlia e alla sua famiglia, ora che è ricaduta nell’indigenza, dovrà, dopo aver pubblicamente dichiarato di essersi sbagliato in quelle analisi batteriologiche dell’acqua termale, fare ritorno nello stabilimento al fine di farlo di nuovo decollare per rivalorizzarne le azioni. Un piano diabolico, a causa del quale Stockmann, in presenza di alcune persone, dice che gli «sembra di vedere il diavolo in persona».

A fronte delle conseguenze nefaste che il protagonista del dramma ibseniano ha dovuto subire a causa della sua ostinazione a mantenersi nel vero, sembra di rivedere un altro protagonista, un lottatore biblico impegnato in una lotta altrettanto radicale, dura ed estenuante: Giobbe. Vediamo – gli dicono i suoi avversari, quasi per sfidarlo, per metterlo alla prova (simile a quella cui Satana e Dio sottopongono Giobbe) – vediamo se hai ancora il coraggio di osare, se continui ancora a dire di no dinanzi al fatto che in questa tua punizione saranno coinvolti anche la tua famiglia, vediamo se osi mettere in forse la loro salvezza, il futuro dei tuoi figli. Specialmente in un passaggio della sua strenua difesa della verità e delle sue convinzioni, Stockmann sembra proprio l’Uzita che si divincola tra i mille lacci tesi sia dalle due figure iperuraniche sia dai suoi più terreni amici: «Ma io – dice a un certo punto – sono intimamente convinto di aver ragione». E proprio in ciò, in questa soggettivazione della verità, egli, insieme alla immediata certezza interiore, ne esprime e ne evidenzia al tempo stesso l’impotenza esteriore.

Gli autori

Franco Di Giorgi

Ha Insegnato per due decenni filosofia e storia presso il Liceo scientifico "A. Gramsci" di Ivrea. La sua riflessione si muove tra filosofia (Aporia, 2004), memorialistica (concentrazionaria e resistenziale) (Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah, 2004; A scuola di Resistenza, 2006), esegesi biblica (Giobbe e gli altri, 2016; Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso, 2018) ed estetica (letteraria e musicale) (Tolstoj, Flaubert, Rilke, Proust, Ibsen, Pergolesi, Vivaldi, Beethoven, Rachmaninov, Mahler). Tra le riviste che hanno ospitato i suoi scritti: Testimonianze, Fenomenologia e Società, Paradigmi, Interdipendenza, Nuova Rivista Musicale Italiana, Israel, Historia Magistra...

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