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15/02/2020 di: Antonella Tarpino
Negli anni più recenti è andata aumentando la consapevolezza del ruolo fondamentale del territorio da intendersi come vero contesto di vita delle popolazioni, non solo come supporto materiale alle diverse funzioni necessarie alla sussistenza degli insediamenti e alle loro economie. Tanto più nel nostro Paese, dove il territorio è stato oggetto di trasformazioni insediative plurimillenarie. Consapevolezza diffusa, che però non sempre si è accompagnata a un’adeguata consapevolezza amministrativa e in senso lato politica, come mostra un’ormai significativa letteratura.
Tirato un sospiro di sollievo per come sono andate le elezioni amministrative in Emilia Romagna (e forse qualcosa di più) ho ripensato infatti al richiamo di Vittorio Emiliani sul “Fatto quotidiano” quando si è augurato che ora Bonaccini “cambi musica”: basta con l’asfalto e il cemento.
Basta vien da dire con l’uso sconsiderato che ogni parte politica, non escluso appunto il centro sinistra, ha fatto del territorio italiano in questi anni. Finalizzato, come ci spiega Anna Marson, che ha firmato il piano paesaggistico della Regione Toscana, nel suo libro Urbanistica e pianificazione territorialista uscito in questi giorni da Quodlibet, ad assecondare prevalentemente i processi di industrializzazione e di finanz-capitalismo come lo chiamerebbe Luciano Gallino. Con una privatizzazione crescente dello stesso sistema della pianificazione territoriale.
Non lasciamo però che l’unica voce udibile contro la distruzione dei luoghi sia quella dei populisti (per quanto sovente ridotta a mera retorica contraddetta nella reale pratica amministrativa). Mentre l’insieme di elaborazioni culturali che propongono critiche argomentate e alternative inclusive rimangono sottotraccia. Anzi, spesso dai tribali amministratori leghisti vengono stigmatizzate e additate al ludibrio popolare come tematiche da salotto. Ciò non toglie che troppo spesso, a uno sguardo superficiale, questi stessi “barbari” possono apparire – e si accreditano – come custodi gelosi dei loro territori. Si pensi, fa notare Anna Marson, che l’Associazione delle scuole europee di pianificazione impiega il termine “territorialismo” per connotare negativamente il sovranismo.
E’ giusto invocare (e non solo per l’Emilia Romagna ovviamente) tanto più in epoca di Fridays for the future, la fine dell’uso brutalmente funzionale del nostro territorio: semplice posta in gioco tra i diversi interessi organizzati. Dove si relega sempre più ai margini (significative l’istituzione delle Città metropolitane e lo svuotamento delle Province) tutto ciò che non è “centro”. E dove la rigenerazione dei centri urbani, nei luoghi di maggiore attrazione turistica, produce per lo più nuova rendita fondiaria e immobiliare.
Il territorio va considerato allora, ci ammoniscono le voci dei pianificatori raccolte nel volume (da Cellamare a De Bonis da Poli a Agostini), come ecosistema complesso, patrimonio materiale e immateriale essenziale al nostro benessere civile, assumendo, come afferma Alberto Magnaghi, fondatore della scuola Territorialista, “il punto di vista dell’abitare”. Il territorio è ben altro rispetto al valore finanziario dei terreni edificabili. E’ un patrimonio in sé che può alimentare forme di sviluppo economico, qualità degli insediamenti, stili di vita. Tanto più che l’individuo, ridotto a puro consumatore, nella caduta di ogni spazio pubblico esprime una domanda di comunità, di interazione con i luoghi. Si tratta ormai sempre più di comunità meticce, lontane dal genere tradizionalista che si può avere in mente, composte di persone che a vario titolo si prendono cura dei territori. Ponendoci seri interrogativi.
Ecco che va rimessa in discussione, secondo i Territorialisti, la nozione stessa di “interesse pubblico”, difficilmente difeso oggi dalle sole istituzioni politiche così da aprirsi a una condivisione più ampia di responsabilità. Come? Certo attraverso, anzitutto, una ricomposizione dei saperi ora troppo settoriali che il territorio sappiano rappresentarlo adeguatamente. E insieme, incoraggiando proprio quelle pratiche di partecipazione sul piano concreto come strumento per acquisire “coscienza di luogo” e dunque potere (empowerment in senso tecnico) da parte delle comunità locali.
Non si tratta, ammonisce Anna Marson, di sostituire l’azione pubblica scaricando sui cittadini gli oneri amministrativi quanto di ripensare la stessa idea di Amministrazione pubblica in termini di sussidiarietà a base collettiva. In modo tale che a fronte di processi decisionali sempre più opachi e lontani dai territori si ristabiliscano gli interessi anzitutto di chi li abita.
Gli esempi non mancano. Dalla costituzione degli Ecomusei come strumenti innovativi e partecipati di pianificazione da parte dei Comuni (il caso citato è anzitutto quello delle Apuane), all’incremento delle pratiche pattizie (i Contratti di fiume) al progetto di Piano per il Parco Nazionale del Gran Sasso, al recupero eco-paesaggistico di un’area abusiva di un quartiere di Gela……
Insomma s’impara molto dall’esperienza non solo teorica raccolta nel volume: utile tanto più a quegli amministratori che a partire da Maggio prenderanno in consegna molti dei nostri territori fragili.