Domenica 26 gennaio tra le vetrate delle serre del castello di Govone (così ben restaurate dall’ex sindaca Ornella Ponchione, l’organizzatrice dell’incontro) si è celebrata la giornata della Memoria. Non ero certa che fosse quella l’occasione giusta per introdurre in forma non rituale l’argomento della crisi collettiva del ricordare, soprattutto per quanto riguarda le generazioni più giovani. Mi aiutava la lettura ben più autorevole (che intervallava canti e interventi) di alcuni passi dei discorsi preoccupati di Liliana Segre. O il video della giornata di Alba, il racconto di alcune crude esperienze nel lager…

Sì perché come ha intitolato “Repubblica” un recente articolo a piena pagina di Gad Lerner la memoria non basta più. Sono lì a dimostrarlo gli agguati ingiustificabili proprio in Piemonte alla casa che fu di Lidia Rolfi a Mondovì, partigiana deportata a Ravensbrück o a Torino. Come si spiega questo rigurgito?
Con la fine dell’era dei testimoni (secondo l’efficace espressione di Annette Wieviorka), è vero, si è assistito a un crescendo di memoria mediatizzata (i tanti film e serial su quell’evento, libri di varia caratura, fino a far parlare di “industria dell’Olocausto”) cui ha corrisposto progressivamente una amnesia crescente o per meglio dire una memoria sempre più debole della tragicità di quei fatti e della lotta di Liberazione che sancì la sconfitta dei regimi totalitari.
Si può allora dimenticare anche ricordando in modo troppo esteriore così che quel racconto horror di un’epoca per molti remota finisce per essere assimilato dai giovani digitalizzati ai debordanti racconti della fantasy più efferata che germogliano di continuo sui loro video.
Fantasy. Non è un caso se le varie forme di negazionismo hanno considerato numeri fantasiosi i 6.000.000 di ebrei finiti nei forni crematori o ancora i tanti oppositori politici sterminati, i gay o gli zingari.
E oggi? Nel 2020, io credo, si registra un ulteriore salto: complici i processi di globalizzazione e le nuove tecnologie. Viviamo in un eterno presente dove tutto avviene in simultanea e ciò che sta prima perde per i giovani di significato. Schiacciato com’è il Presente (è stata definita l’epoca del Presentismo) tra un Futuro immaginato come l’età del rischio massimo: la possibile estinzione della vita sul pianeta (come ci ammoniscono i Fridays for future) e un Passato, anche quello prossimo, che si studia a scuola, che sembra appartenere a un’era geologica.
Del resto, che cosa è la guerra per un ragazzo o una ragazza della generazione dei Millenials? Già quasi tutti noi possiamo ricordare solo la guerra degli altri (Iraq contro Iran, Egitto contro Israele, Vietnam a spingersi lontano…)
Il passato è un Paese straniero, secondo una nota formula, talvolta è un nemico come appare tra le righe di un’intervista a un giovane brillante che si occupa di economia digitale ritratto insieme a Mattarella in una foto ufficiale: “Chi non ha il pensiero del passato – afferma – sa come affrontare le sfide dell’economia di oggi che richiedono aggiornamenti veloci”. E’ proprio ciò che preoccupa invece tanti, più assennati, che vedono nelle scelte di “brevitempismo” (così denominava “gli aggiornamenti veloci” Luciano Gallino) il pericolo che
minaccia la possibilità stessa di scelte economiche e politiche responsabili capaci di misurare le ricadute che queste (tanto più se calcolate esclusivamente sull’immediato) possono avere sul corpo sociale.
La memoria (che è inscritta per forza di cose nel passato) dovrebbe servire a combattere i rischi che non esclusivamente il futuro può portare alla vita sul pianeta ma anche un passato che non riconosce i suoi errori e che fluttua nell’aria solo nelle sue immagini vintage, può compromettere le regole condivise delle nostre società: i diritti democratici e di libertà. E senza neppure esserne consapevoli…
Allora che fare? Io credo si possa tentare di rimediare alla discronia “avvicinando” la memoria a quella storia nella nostra stessa esperienza quotidiana. Ricercando quella memoria lì dove viviamo, a Cossano Belbo, per esempio, dove è nata la celebre II Divisione Langhe (di fenogliana memoria) e ha posto il paese al centro della storia d’Italia. O a Paraloup, in Valle Stura, sempre provincia di Cuneo, dove si è formata la prima banda partigiana di Giustizia e Libertà Italia Libera con Duccio Galimberti, Livio Bianco e poi Nuto Revelli.
Interroghiamo allora quelle tracce, ancora vive, che ci riguardano, giovani e meno giovani, per ritrovare un’empatia anche di tipo esistenziale con quella storia, lì dove ci sono le origini del nostro mondo. Penso, per fare alcuni esempi, all’effetto che ha fatto sul pubblico attento che l’ascoltava, la poesia di Adriano Balbo – il grande partigiano, cugino di Piero, il comandante Nord dei romanzi di Fenoglio – scritta in diretta (diremmo oggi) sulla presa di Alba. L’ho sentita leggere da Antonella Saracco in un pomeriggio emozionante a Santo Stefano Belbo prima di Natale. Lì c’era l’anima di quel momento, più che nelle date, nelle storie delle battaglie. In quelle parole scritte a macchina su un cartoncino marrone. O immagino l’effetto che le parole di Nuto Revelli in una lontana giornata della fine degli anni Settanta avrà prodotto sugli studenti di una scuola elementare nelle montagne di Festiona quando ha declamato, a memoria, le parole del Giuramento del balilla per spiegare come sarebbe stata la loro vita a quell’epoca:
“Giuro di servire con tutte le mie forze e se necessario con il mio sangue (l’ età era quella degli stessi bambini attoniti) la causa della rivoluzione fascista: credere, obbedire, combattere”.