Fa pensare il libro di un giovane storico, Marco Bernardi, Quando la storia diventa storie. La società italiana e la comunicazione di fascismo e Resistenza tra gli anni Settanta e gli anni Duemila (Le Monnier, 2019). Intanto perché in un’epoca, come la definisce di “antifascismo debole”, è davvero un miracolo il canto onnipresente di Bella ciao nelle piazze delle Sardine: se è vero che quel canto non esprime di per sé un fenomeno di coscienza storica (che è l’oggetto più propriamente del suo studio) è certo un indicatore di ciò a cui, in un’indistinta nebulosa, non vogliamo rinunciare né noi, né i molti giovani poco incantati dalla prospettiva che Salvini o i suoi futuri epigoni si impossessino dei pieni poteri. Una fonte corale quella delle note di Bella Ciao (non importa se forse i partigiani non l ‘hanno mai cantata perché riadattata solo nel dopoguerra sulla falsariga di un’antica ballata piemontese) che si dispiegano sulle piazze italiane in linea con lo strumentario davvero notevole e ricco di suggestioni di cui fa uso Bernardi: non tanto opere di storiografia quanto romanzi, film, periodici, fumetti, programmi radio e televisivi. Per raccontare cosa?
Di certo il progressivo indebolimento del paradigma antifascista inteso come “religione civile” che in Italia ha toccato il suo acme tra gli anni Sessanta e Settanta per poi declinare, complice il contraccolpo del terrorismo e il tracollo globale delle ideologie, nel riflusso degli anni Ottanta, vale a dire nel ripudio della militanza giovanile, in favore di pratiche individualistiche volte al divertissment e alla leggerezza. Un disimpegno che Bernardi rintraccia nei programmi televisivi di quegli anni di fascia medio alta (Quelli della notte di Renzo Arbore) o più bassa (Drive in) e in genere nella comparsa della neotelevisione, generalmente coincidente con la tv commerciale sempre più di intrattenimento e sempre meno d’informazione, poco incline ai talk show politici o a programmi come Nascita di una dittatura di Sergio Zavoli che avevano svolto un grande ruolo propedeutico nella coscienza civile italiana.
E’ nel vivo di questo processo di disincantamento che muove l’attacco revisionista in Italia rappresentato in particolare dalle tesi dello storico Renzo De Felice che giunge a contestare in toto il discrimine fascismo-antifascismo inadatto a stabilire – parole consegnate non a caso a Giuliano Ferrara nel corso di un’intervista del dicembre 1987 – “che cos’è un’autentica democrazia repubblicana, una democrazia liberaldemocratica”.
Il libro dà conto, in forma molto dettagliata, di tutti gli espedienti massmediologici messi in gioco per svilire l’antifascismo (Gianpaolo Pansa docet) avallando semmai la trita mitologia degli “Italiani bravagente”, senza peraltro trascurare il fitto dibattito avviato da un revisionismo agguerrito sul piano internazionale (da Nolte a Faurisson)…. L’autore chiama in campo anche il progressivo oscuramento dello stesso metodo storico soprattutto da parte di chi s’interrogò in quagli anni sullo statuto scientifico della storiografia in senso proprio (il celebre dibattito aperto dai cosiddetti Narrativisti, in testa il filosofo analitico Hyden White).
Ma veniamo all’oggi. E’ vero che l’antifascismo non è defunto, come avvertono le Sardine, ma è anche vero che le odierne posizioni critiche e antiliberiste non cercano più i propri argomenti nel passato, come è stato fino agli anni Settanta, almeno in Italia, ma semmai sono ispirate dai rischi globali, del tutto inediti nella loro radicalità, del futuro (come i Fridays for future ci indicano). Di più, è proprio l’idea stessa di passato, al di là di ogni fragilità della storia, che sembra essere venuta meno fino a far dire a un filosofo come Giorgio Agamben che viviamo in un’epoca di post-passato, complici le nuove tecnologie digitali che sembrano muoversi nell’ultratemporalità (oltre che nella globalizzazione di ogni spazio). Certo viviamo in un’età dominata dal dispotismo del presente, o per meglio dire, usando le parole di uno storico antichista Francois Hartog, nell’epoca del Presentismo. E’ forse a questa condizione Presentista, in virtù della quale le altre durate risultano come annientate, che dobbiamo il paradosso stesso di un antifascismo, quello dei nostri giorni, senza fascismo: antifascismo “debole” perché (almeno in apparenza) privato di quella materia dura della storia di cui si è forgiato. Ed è il motivo per cui penso che nel nostro tempo di post-memoria sia urgente sforzarsi di trasmettere il rischio che quel passato rimosso, così come può avvenire per l’intero pianeta, possa contaminare, sia pure in forme diverse, il nostro stesso futuro democratico.