Forse solo chi, come Amin Maalouf, è nato a Beirut alla fine degli anni Quaranta del Novecento, in tempo ancora per assistere al tramonto del cosmopolitismo levantino, poteva scrivere un libro come Il tramonto delle civiltà (La nave di Teseo, nell’ottima traduzione di Anna Maria Lorusso: ma un indice dei nomi sarebbe stato opportuno). Il testo probabilmente rifonde e integra articoli e riflessioni dell’autore ed è una bussola per orientarsi nella catastrofe in cui siamo precipitati o almeno per ricostruire come ci siamo giunti. Un saggio di storia contemporanea, ma scritto come un romanzo o un’autobiografia o piuttosto una testimonianza a futura memoria.
Il libro ci racconta la disintegrazione del Vicino Oriente, o Levante secondo la denominazione antica, che Maalouf giustamente preferisce e che rimanda a quando, in quell’area di confini mobili, Occidente cristiano e Oriente musulmano si incontravano e spesso riuscivano addirittura a far convivere differenze e appartenenze. Ma il tema di fondo è la fine dell’assetto mondiale stabilito a Yalta e le convulsioni di un mondo che non riesce a trovare nuovi equilibri e che anzi sembra procedere verso la disfatta, «inconsapevole del pericolo e convinto di essere indistruttibile come un tempo lo era il Titanic – prima di inabissarsi nella notte contro quella fatidica montagna di ghiaccio, mentre l’orchestra suonava Più vicino a te, mio Dio e lo champagne scorreva a fiumi» (p. 346). E Maalouf cerca di indagare come si è arrivati a questo punto, forse di non ritorno come suggerisce il titolo del volume. Per farlo, ripercorre alcune date fondamentali.
Il 5 giugno 1967, quando parte la fulminea Guerra dei sei giorni, col trionfo di Israele e il declino di Nasser, paladino e bandiera del socialismo arabo quando i fratelli musulmani potevano ancora essere presi in giro nei comizi e nei discorsi ufficiali. Da quella sconfitta nascerà l’islamismo politico e il patriottismo sostituirà l’internazionalismo proletario come difensore degli oppressi, cui dava orgoglio e unità indipendentemente dalle appartenenze culturali etniche e religiose: la coscienza di classe abbracciava i proletari di tutto il mondo e apriva un futuro. Senza quella sconfitta non ci sarebbe forse stata nemmeno la brutale colonizzazione israeliana della Cisgiordania e nemmeno il Settembre nero del 1970, quando il re di Giordania, Hussein, combatté i feddayn di Arafat e quando morirono molti profughi palestinesi rifugiatisi in Giordania dopo la Guerra dei sei giorni.
Altro anno cruciale è il 1978. Nell’ottobre viene eletto papa Giovanni Paolo II, conservatore pugnace, abile politico e trascinatore di masse non solo cattoliche. Nel dicembre Den Xiaoping sale al potere in Cina e inizia una svolta economica che affonda le sue radici nel tradizionale spirito imprenditoriale e commerciale dei cinesi più che nel marxismo.
Arriviamo così al 1979, data epocale, anno di trapasso da un ciclo storico a un altro, tuttora in corso; l’anno in cui piste apparentemente diverse convergono verso uno stesso traguardo. Dal 1979 «il conservatorismo si sarebbe preteso rivoluzionario, mentre i sostenitori del progressisimo e della sinistra non avrebbero avuto altro scopo che la conservazione dello status quo». Nel febbraio Komeyni diventa Guida Suprema dell’Iran e getta le radici di un islamismo tradizionalista e politicamente radicale (nasce la Repubblica islamica dell’Iran); in maggio Margaret Thatcher diventa Primo Ministro (e a novembre dell’anno seguente Reagan diventa presidente degli USA). Nell’aprile, intanto, Alī Bhutto, già presidente del Pakistan, accusato di laicismo e socialismo, era stato impiccato da militari golpisti che imposero la legge coranica. In luglio gli USA decidono di sostenere segretamente i mujaheddin islamisti afghani. In novembre militanti islamici sauditi irrompono nella moschea della Mecca, che è come dire il nostro Vaticano, e ne nasce una strage. Nel dicembre le truppe sovietiche entrano in Afghanistan.
Già, l’Unione Sovietica. Dopo la caduta di Saigon del 1975 (e la rivoluzione dei Garofani in Portogallo l’anno precedente) sembrava procedere trionfalmente: Cambogia, Laos, Angola, Mozambico, Capo Verde, Madagascar, Etiopia, Somalia, Yemen del Sud… tutti Paesi guidati da partiti marxisti o di obbedienza sovietica. Poi ci fu l’Afghanistan… il pantano dell’Afghanistan. L’invasione sovietica iniziò il 27 dicembre 1979 e durò 10 anni, fino al ritiro definitivo nel 1989. Nel 1989 crolla il muro di Berlino (In proposito segnalo Hans Modrow, La perestroika e la fine della DDR. Come sono andate veramente le cose. Mimesis, 2019. Modrow è stato l’ultimo presidente del Consiglio della DDR. Attualmente è presidente anziano della Linke. Rimando anche alla bella intervista uscita su “La Lettura” del 6 ottobre 2019 a cura di Paolo Valentino: Speravo di salvare la mia Berlino Est. Mosca ci ha traditi).
Il resto è storia recente. Ma alle origini del disordine contemporaneo ci sono gli eventi di quegli anni: da lì nasceranno poi molti dei «momenti simbolici che hanno plasmato il nostro tempo, dalla caduta del Muro di Berlino al crollo delle Torri Gemelle di New York» (pp. 229-230). In quegli anni comincia anche il fallimento della sinistra occidentale. Oggi «poche persone lodano ancora le virtù del dirigismo o mettono in discussione il primato delle leggi di mercato. (…) Ciò di cui ci si voleva “liberare” era soprattutto lo Stato sociale, la propensione delle autorità ad alzare sempre più le tasse e ad aumentare l’assistenza sociale per ridurre il divario tra chi ha e chi non ha» (p. 221). Così, mentre il neoliberismo, rilanciando l’immaginifica teoria della “mano invisibile”, procede indisturbato di trionfo in trionfo (meglio: di infamia in infamia), i partiti di sinistra dopo aver abbandonato la difesa dei diritti sociali si buttano prima sui diritti individuali (sacrosanti, ma sai quanto aiutano i “dannati della terra”…) per poi dissipare una gloriosa eredità arrabattandosi tra furbizie di piccolo cabotaggio e divisioni infinite del nulla. E Maalouf osserva: «Quando tento un bilancio del XX secolo, mi sembra che esso sia stato il teatro di due “famiglie” di calamità, l’una generata dal comunismo, l’altra dall’anticomunismo» (p. 211).
Maalouf è infatti molto critico anche sul modo in cui gli USA hanno gestito la crisi dell’Unione Sovietica. Contrariamente alle assicurazioni date a Gorbacëv da Kissinger, pezzo a pezzo smembrarono l’ex impero, mantennero e potenziarono la NATO, facendovi entrare nuovi Paesi, e non ascoltarono la saggezza del senatore George F. Kennan che raccomandava: «Non possiamo continuare a trattare i nostri nemici come se dovessero restare tali per sempre» (citato a p. 288). E Maalouf conclude: «A posteriori è chiaro che gli Stati Uniti non sono stati in grado di superare con successo il difficile esame cui la Storia li aveva sottoposti. Nel corso dei tre decenni successivi al loro trionfo e alla loro incoronazione si sono dimostrati incapaci di definire un nuovo ordine mondiale. (…) volevano annientare regimi, ricostruire nazioni, ricomporre intere regioni secondo la loro visione del mondo» (p. 292) e «Il fallimento dell’America è stato palese, non ha mai smesso di peggiorare e al momento sembra difficile porvi rimedio» (p. 294).
Ma non sono solo queste le minacce che incombono sull’umanità del XXI secolo. Oltre alle rivoluzioni conservatrici, ai demoni identitari, alla mercificazione neocapitalistica e globalizzata, agli integralismi religiosi e non, incombe sull’umanità anche la minaccia della tecnologia, contro cui avevano già messo in guardia anche Harari, soprattutto in 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, ed Eriksen in Fuori controllo, Einaudi. Indubbi i vantaggi e le prospettive. Ma che ne sarà, avverte Maalouf, della nostra libertà? E nell’ultima parte del libro proietta ombre orwelliane sul nostro futuro. Ormai siamo sotto controllo continuo. Mentre digitiamo al computer, quando acquistiamo qualcosa e lasciamo tracce da cui poi viene dedotto un profilo, quando ci muoviamo per strada ed entriamo in un negozio, quali malattie abbiamo, chi incontriamo… «Ogni giorno sbiadisce un po’ di più il confine tra quello che nella nostra vita resta privato e quello che invece diventa pubblico» (p. 317). La scienza che ci libera ci asservisce anche: «Un mondo spaventato, dove il controllo quotidiano delle nostre azioni fosse dettato da un desiderio reale e legittimo di sentirsi protetti in ogni momento, non sarebbe alla fine ancora più preoccupante di un mondo in cui lo stesso controllo è imposto con la forza da un tiranno paranoico e megalomane?» (pp. 320-321).
Sì, sembra davvero che siamo prigionieri di un meccanismo fuori controllo, che nessuno sappia organizzare le diversità in un mondo globalizzato uscito dai cardini, come già lamentava Amleto, e che nessuno sia ancora nato per rimetterlo in sesto. Nemmeno Maalouf ha ricette ma, per citare il Kavafis che pone a exergo, fa suo «l’appello segreto degli eventi che stanno per accadere».