Parliamo, per definire noi stessi. Gli esseri umani sono gli unici tra tutti i viventi, a possedere il dono della parola. La distanza tra l’uomo e gli altri animali non è tanto una sensibilità più alta o una memoria maggiore, ma solo la capacità di trasformare l’esperienza vissuta in simboli e di usarli nella vita quotidiana, traducendoli in parole. «È il potere di usare simboli, il potere del linguaggio che lo fa signore della terra» (Susanne K. Langer, Filosofia in una nuova chiave: linguaggio, mito, rito e arte, Armando, 1972).
Vera Gheno, sociolinguista, specializzata in comunicazione digitale e traduttrice, docente all’Università di Firenze, ha recentemente pubblicato Potere alle parole, edito da Einaudi, nella collana “Opera Viva” che raccoglie i titoli «dedicati a ciò che sta, o dovrebbe stare, alla base di ogni idea di cultura: la civiltà dei rapporti quotidiani».
«La competenza linguistica ha un valore inestimabile, perché è anche alle base della possibilità di essere a pieno titolo cittadini del proprio tempo. Lo sapeva bene Tullio De Mauro, che ha dedicato la vita all’educazione linguistica democratica, confidando nell’idea che il modo migliore per curare lo stato di salute dell’italiano e in contemporanea della cultura dei suoi parlanti fosse quello di far sì che tutti potessero accedere a una preparazione linguistica soddisfacente: la democrazia ha bisogno di persone che capiscano ciò che succede loro attorno, non di succubi che possono facilmente essere incantati dal primo imbonitore che sceglie oculatamente le parole per colpire alla pancia invece che alla testa». Suona piuttosto attuale vero?
Vera Gheno ci offre una rassegna di informazioni di carattere linguistico, curiosità e aneddoti personali, utili per cavarsela nella vita di tutti i giorni, da leggere come un romanzo, ricordandoci che la vera libertà di ognuno di noi passa dalla conquista delle parole. In occasione dell’uscita del libro le abbiamo posto alcune domande.
I test di ingresso alle facoltà universitarie e gli studi Invalsi ci dicono che la maggioranza degli studenti non sa usare l’italiano. È una fotografia veritiera? E se sì, dove fallisce il nostro sistema educativo? Come possiamo accogliere l’invito di Tullio De Mauro di “educare alla parola”?
La mia controdomanda è: prima era meglio? Oggi arrivano a studiare, prima a scuola e poi all’università, infinitamente più ragazzi di una volta. In altre parole, i carotaggi scolastici adesso comprendono una fetta molto più ampia della popolazione. Ho la sensazione che più che di abbassamento complessivo nelle competenze di italiano occorra parlare di allargamento del campione. Questo porta secondo me all’emersione di fenomeni che prima, di fatto, rimanevano in qualche modo nascosti. Detto questo, è anche indubbio che si educhi troppo poco alla parola viva, ossia alla mobilità di registro. Ritengo che molti dei disagi degli italiani derivino dalla “forbice” tra lingua della scuola (spesso avulsa dalla realtà) e lingua “della strada” (non sufficientemente raffinata da supplire alle esigenze linguistiche poste dalla società della comunicazione e dell’informazione). Come migliorare le cose? Partendo dal piccolo: dall’orticello della propria competenza linguistica. In particolare riferimento ai giovani, io mi sento di spezzare una lancia a loro favore: il mito che i ragazzi di oggi siano più superficiali delle generazioni precedenti si perpetua tale e quale sin dall’antichità. Piuttosto, mi sento di dire che il cosiddetto “gap generazionale” attuale è stato amplificato dall’accelerazione tecnologica dell’ultimo decennio, tanto che oggigiorno c’è ancora più incomprensione intergenerazionale del normale. A me non sembra che i ragazzi di oggi siano così linguisticamente e cognitivamente sprovveduti. Forse, piuttosto, le loro competenze sono altrove, in “luoghi” dove noi “grandi” facciamo ancora più fatica di prima a intercettarle, a notarle.
Il problema è che “chi parla male pensa male” e se i nuovi cittadini e la futura classe dirigente non possiedono le parole che definiscono i concetti, non potranno usarli per pensare, comprendere, costruire il futuro, è così?
In realtà il problema lo vedo molto attuale. Già i cittadini di oggi e la classe dirigente attuale dimostrano sovente aridità linguistica. La questione, casomai, è far sì che questo non si perpetui nelle generazioni successive. Se già noi siamo un po’ carenti rispetto ai bisogni cognitivi del presente, come possiamo sperare di insegnare le “cose giuste” ai nostri figli e alunni? Questo, del resto, è il senso di avere scritto un libro “politico” come Potere alla parola: l’idea di contribuire, nel mio piccolo, a dare maggior attenzione all’importanza di avere il miglior controllo possibile dei propri strumenti linguistici.
Già, molto attuale. Le parole sono potenti, possono essere armi, e come tali nelle mani sbagliate possono essere molto pericolose. Penso ai discorsi d’odio della propaganda nazifascista, alla costruzione del nemico; oggi parole ostili, parole d’odio tornano a risuonare, quanto assomigliano a quelle di allora e quanto sono amplificate, se lo sono, dai canali social?
Le parole d’odio sono sempre esistite. L’odio è un sentimento istintivo per l’essere umano. Chiaramente, va compreso, contenuto, mitigato (per esempio, con la conoscenza). Non è che lo hate speech si sia mai sopito, nei decenni passati. Di certo, si è passati da un sistema in cui solo pochi avevano una voce pubblica a un altro in cui ogni persona è stata dotata di un megafono. Solo che con quel megafono non ci sono arrivate anche le istruzioni per l’uso. Per questa dissonanza cognitiva, secondo me, molti non hanno trovato niente di meglio da fare con quel megafono che non urlarci dentro tutte le cose più brutte che avevano in mente. Insomma, a mio avviso dobbiamo soprattutto imparare a usare il megafono di cui ci siamo ritrovati dotati.
In questo mondo che purtroppo riscopre confini e stranieri, che ruolo hanno le parole, le lingue: sono muri o ponti?
Hanno mai smesso di esistere, gli “stranieri” anche solo come concetto? Io non penso. Ci sono stati momenti in cui “gli stranieri” erano accolti incondizionatamente a braccia aperte? Mah, non direi. Di sicuro, si girava meno, tutti; c’erano meno occasioni di incontrare persone fuori dal proprio milieu abituale. Ho la sensazione che possiamo dichiarare superata l’idea del melting pot, ossia che semplicemente mettendo insieme persone differenti in un calderone si sarebbe creato un gradevole “minestrone di culture”. In questo, seguo il pensiero del mio compagno di elucubrazioni Bruno Mastroianni: forse l’unico modo di gestire questo presente così complesso è di non pensare di superare le differenze, ma di conviverci. Ovviamente, più aumenta la complessità del tessuto sociale, più le parole possono contribuire a unire o a separare. Ma le parole di per sé non sono né muri né ponti. Piuttosto, diventano ciò che noi le facciamo diventare con le nostre intenzioni comunicative.