Ci sono immagini che scandiscono la vita. Per chi era giovane ai tempi della guerra americana in Vietnam è indimenticabile la foto della piccola (nove anni) Kim Phúc che, nuda e in lacrime, scappa disperatamente dalle bombe al napalm dei marines.
In tempi più vicini a noi e, se possibile, ancor più drammatici per il diffondersi globale della violenza e della disperata ricerca di scampo, la foto di Aylan Kurdi, il bimbo dalla t-shirt rossa e i pantaloncini blu riverso sulla spiaggia, annegato mentre insieme col padre e il fratello maggiore (pure lui morto annegato e disperso in mare) fuggiva dalla città curda di Kobane.
O gli occhi verdi, selvaggi e insieme spaventati, della dodicenne Sharbat Gula, ragazza afghana rifugiata con la nonna e un fratellino di sei anni (i genitori erano morti sotto le bombe sovietiche) nel campo profughi di Peshawar. E con davanti a sé una vita da profuga in Pakistan.
O il video della giornalista ungherese Petra Laszlo che in completo azzurrino l’8 settembre 2015 al confine tra Serbia e Ungheria sgambettava ghignando i siriani in fuga dalla guerra e dalla polizia di frontiera.
O le immagini del pianista Aeham Ahmad che con eroica tenacia nel quartiere palestinese di Damasco per sei mesi suonò e cantò sotto le bombe, dando speranze o almeno conforto ai sopravvissuti.
Flash della nostra impotenza, di un’incapacità di reazione efficace che ci rende oggettivamente complici dell’orrore in cui il passaggio d’epoca e di egemonie ci ha gettati. Più eloquenti di un’intera biblioteca di saggi storici o economici.
In questi giorni il Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati fa circolare una foto che vorrebbe essere di speranza. Una foto di Aleppo, città siriana già patrimonio Unesco, distrutta da 7 anni di guerra. Le devastazioni sono irreparabili: è come se il centro di Firenze, Duomo Battistero Palazzo della Signoria santa Croce santa Maria Novella e Uffizi compresi, fosse raso al suolo, ridotto in frantumi. Se possibile, peggio di Dresda dopo i bombardamenti inglesi e americani. Ma ora, pur in un contesto geopolitico precario, Aleppo ricomincia faticosamente a rivivere.
E la foto dell’UNHCR cerca di darne testimonianza: sullo sfondo di cumuli di macerie, di palazzi periclitanti, con un minareto ancora in piedi ma incerto, in uno slargo con due alberelli invernali, un carrettino su cui sono esposte matasse di zucchero filato rosa. Unico essere umano: il giovane venditore, intabarrato in un giaccone invernale, seduto con aria perplessa su un muretto. Dall’immagine, sembrerebbe che quello zucchero filato da fiera di paese resterà invenduto: chi passa tra quelle macerie? Eppure quel banchetto solitario e colorato in mezzo al grigiore delle rovine è un segno di speranza, di tenacia, di fiducia vitale. Quel giovane sopravvissuto al disastro, seduto accanto al suo carrettino in mezzo alle rovine da cui sembra esalare ancora la polvere della distruzione, è come Aeham Ahmad, il pianista di Damasco. Ha fiducia, vuole veder sorridere dei bambini se mai qualcuno passerà di lì. Questo almeno credo sia l’intento del Commissariato delle Nazioni Unite nel diffondere la foto.
Viviamo in un mondo in cui la vita dei più è diventata superflua: “ppesci de frittura” diceva Belli nel sonetto Li morti de Roma, oggi piuttosto carne da vendere. Sembrava che dopo gli orrori del Novecento saremmo rinsaviti, invece il genio è uscito dalla bottiglia ancora una volta, se mai ci era rientrato: buona parte del mondo non occidentale non l’ha mai visto prigioniero e a buon diritto l’ha identificato con noi.
Non so se le convulsioni del capitalismo trionfante siano la fase finale o l’inizio di una storia ancora peggiore. Propendo per la prima ipotesi: i cicli storici hanno generalmente la tendenza a durare circa tre secoli e noi i nostri secoli di splendore a spese degli altri li abbiamo consumati. E forse faremmo anche bene a rileggere Franz Fanon. Ma in un mondo globalizzato, tecnologicamente potentissimo e culturalmente sprovveduto potremmo anche far tutti la fine di don Giovanni trascinato all’inferno dal Commendatore mentre pervicacemente si rifiuta di riconoscere le sue colpe.
Ci resta, come scriveva Cesare Cases, “la speranza di una vera Terra Promessa in cui sia possibile l’essere miti senza essere vittime, la felicità senza sopraffazione, la religiosità senza Dio, l’attività senza maledizione del lavoro, l’attaccamento alle cose senza il denaro, la cultura senza il suo ruolo repressivo.” (Cosa fai in giro?, pubblicato su “Il Ponte“ nel lontano 1978, poi con varie riprese e da ultimo, con una nota introduttiva di Luca Baranelli, Edizioni dell’Asino 2019, da cui cito.)