Tra finzione e realtà: “Sogni e favole” di Emanuele Trevi

Volerelaluna.it

22/06/2019 di:

L’ultimo libro di Emanuele Trevi, Sogni e favole, Ponte alle Grazie, conferma l’eccellenza di Trevi nel panorama letterario italiano. E soprattutto ne sigla l’originalità. Apparentemente batte un terreno fin troppo percorso, quello della scrittura autobiografica. Ma a me sembra che nelle sue pagine ci sia ben altro spessore, anche teoretico, pur se mai teorizzato.
Nelle sue lezioni americane sulla letteratura (Quadrato nero, Gaffi) Max Frisch scrive: “Comunicativa è solo l’immagine, escogitata, cambiata, trasformata, plasmata. La verità non si può descrivere, solo inventare. Ritengo che non esista finzione che non sia fondata sull’esperienza.” Che equivale a dire che l’esperienza si esprime attraverso la finzione, così come l’attore a teatro esprime se stesso celandosi dietro la maschera del personaggio. La “realtà” è sempre il prodotto finale di un processo di costruzione, sociale e non. Ma nella finzione la realtà diventa significativa per noi.
E quindi, come scrisse Metastasio nel memorabile sonetto che fa da filo conduttore di tutto il libro di Trevi: “Sogni e favole io fingo; e pure in carte / mentre favole, e sogni orno, e disegno / in lor, folle ch’io son, prendo tal parte / che del mal che inventai piango, e mi sdegno.” E non è un caso che Metastasio fosse un grande teatrante; così come non è un caso che a instradare Trevi su questo sonetto sia stato il critico letterario più istrionico (e rabdomantico) del Novecento, Cesare Garboli, a lungo anche critico teatrale e traduttore formidabile  di Molière e di Shakespeare.

Per questo non porrei Sogni e favole nell’alveo melmoso della biofiction, della docufiction, dell’autofiction ecc. ecc.: etichette che coprono come gualdrappe la generale crisi della narrazione (Do you remember Walter Benjamin?) e del romanzo come ricerca del senso della vita e più che altro sono funzionali a ricerche bizantine nelle facoltà umanistiche. A questo punto, diventa autofiction anche La camera da letto di Attilio Bertolucci, saggiamente sottotitolata dal poeta stesso Romanzo in versi
Semmai, scimmiottando altre definizioni, si potrebbe parlare qui di “postromanzo”. Più burocraticamente direi “oggetto librario non identificato”, un “manufatto librario” apparentemente anomalo, come i libri più recenti di un autore peraltro lontanissimo da Trevi, Corrado Stajano. Questo Sogni e favole non è un saggio, non è un’autobiografia, non è nemmeno un romanzo nel senso tradizionale del termine, ma, come altri libri dello stesso autore (a esempio Senza sosta e Qualcosa di scritto), un intreccio narrativo in cui realtà e finzione si scambiano continuamente le parti, nel tentativo di rendere visibile la trama nascosta in cui tutti ci troviamo a esistere.

Il libro è innanzi tutto la storia di tre incontri, tutti e tre di quelli che segnano una vita: il fotografo Arturo Patten, grande ritrattista affamato di vita e di arte, la poetessa Amelia Rosselli, gentile e affascinante, invasa da angosce e paranoie, il critico Cesare Garboli, di cui forse Trevi è l’erede più autentico nel gusto del ritratto e in certe intuizioni improvvise e apparentemente paradossali ma illuminanti. E anche nella capacità di “festeggiare la propria disperazione”, come proprio Garboli suggeriva.
Il tutto si svolge “nel lento crepuscolo del Novecento”, un’era geologica fa, quando “l’esistenza umana godeva ancora di margini di lentezza, di artigianale approssimazione, ed era fondamentalmente sconnessa, in una maniera che per chi ha oggi venti o anche trent’anni è difficilissima da immaginare” (p. 14). E nello scenario e tra le quinte di quella città teatrale per eccellenza che è Roma.

In Sogni e favole si intrecciano storia civile, cronaca letteraria, sentimenti privati e pubblici: molte pagine sono l’album fotografico di un mondo scomparso, quando ancora c’erano cineforum, passioni culturali, esperienze non banali, dibattiti, interminabili conversazioni notturne, effervescenza sociale. Soprattutto vite, passioni e nevrosi autentiche, qui portate all’estremo, in particolare nel ritratto dei tre protagonisti e nelle loro relazioni con l’autore. Siamo all’opposto del selfie (fotografico e letterario) e della banalità del privato, vero o fittizio, che riempie tante inutili pagine della nostra noiosissima narrativa. E che, per giusto contrappasso, è la prima causa del successo commerciale di tanti romanzi “di genere” in cui si dà al lettore l’illusione di riconoscersi in quella che è solo una parvenza di realtà, per di più, quel che è peggio, basata su stereotipi.
Qui la prima persona non è un ego autoreferenziale, emotivamente autobiografico, ma un “io” che racconta i fatti attraverso la lente degli “affetti” e che si confronta con gli altri e la realtà, con un tono di serena disperazione, quando interviene in diretta. Come nella storia zen il cui protagonista in fuga da una tigre si butta dall’orlo di un precipizio al fondo del quale c’è un’altra tigre, si aggrappa a una vite che non sarà in grado di sostenerlo a lungo ma ciò non lo distoglie dal cogliere e assaporare una fragola cresciuta lì accanto.