“In un certo senso, credo che sempre scriviamo di qualcosa che non sappiamo: scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi. Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione.” Così Italo Calvino in una conferenza alla New York University il 30 marzo 1983, Mondo scritto e mondo non scritto, che poi diede il titolo anche a una sua raccolta di saggi. Sono trascorsi quasi quarant’anni ma a me, lettore “forte” pur se non specialista, queste parole sembrano ancora attualissime. Tanto più dopo gli snervanti dibattiti (accademici e non, generalmente alessandrini) su postmoderno, new realism, docufiction, autofiction ecc.: tutto un germogliare di etichette e un incrociar di spade e di narcisismi che non riescono a nascondere la sostanziale fragilità della narrativa italiana di questi anni. Naturalmente ci sono eccezioni, anche numerose: manca, però, il livello mediano, quello che un tempo creava il gusto e l’immaginario del paese. Forse son venuti ormai a mancare i destinatari per quella narrativa e le case editrici (e la scuola) non ne favoriscono la crescita. Forse l’informazione (vera o truffaldina) ha sostituito la narrazione.
Forse, e soprattutto, si è spenta, anche nei lettori, la capacità di fare esperienza, sia pure mediata. L’aveva capito già negli anni Trenta del secolo scorso Walter Benjamin quando in quel suo testo base che è il saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolai Leskov, aveva ricostruito la scomparsa dell’esperienza nella modernità: “Si è perduta la capacità di scambiare esperienze” e quindi abbiamo perduto anche le persone “che sappiano raccontare qualcosa come si deve.” Sommersi dal flusso continuo di informazioni (vere e false) “difettiamo di storie singolari e significative (…) anche perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già infarcito di spiegazioni”. Abbiamo così smarrito anche il senso dello spazio (i racconti dei viaggiatori che venivano da terre lontane) e del tempo (le storie remote, anche genealogiche, dei vecchi). Storie e racconti che somigliano “ai chicchi di grano rimasti ermeticamente chiusi per millenni nelle celle delle piramidi e che hanno conservato fino a oggi la loro forza germinativa.”
Ma ormai ci è preclusa la possibilità di muoverci in quello che il grande regista russo Konstanstin Stanislavskij chiamava “sottotesto” e che è (era?) un esercizio, e un piacere, fondamentale non solo per gli attori. Il sottotesto è tutto ciò che il testo non dice ma che il lettore aggiunge mentre legge, approfittando della libertà d’interpretazione che, a differenza dell’immagine, il testo scritto consente: ramificazioni narrative innestate sul testo base, ipotesi su possibili alternative alla vicenda narrata, varianti dei personaggi (se io fossi X allora che cosa farei?) e così via secondo il libero gioco della fantasia che è (era?) uno dei grandi piaceri della lettura. (Ricordo ancora che da ragazzino coi miei compagni di vacanza passavo pomeriggi interi a rivivere le storie di Salgari o di Verne inventando vicende parallele o alternative a – ma basate su – quelle dei romanzi che leggevamo avidamente. Una possibilità negata ai fruitori di dispositivi elettronici che facilitano le distrazioni ma non favoriscono la fantasia.)
Se per Benjamin il narratore elaborava dentro di sé l’esperienza e la trasformava in esperienza per il lettore, che così si trovava immesso in un catena di storia vivente e dotata di senso e partecipata da una generazione all’altra, quasi configurando un destino; se per Calvino è la realtà che per essere significativa per noi esige, quasi pretende, di essere “messa in forma”, cioè espressa attraverso la finzione del racconto, così come a teatro l’attore si esprime celandosi nel personaggio (larvatus prodeo diceva Terenzio), che cosa succede quando si esaurisce la possibilità di fare esperienza?
Nella società dello spettacolo e dell’informazione vera e soprattutto falsa, dell’immagine virtuale ed elettronica la conoscenza della realtà non si basa più sull’esperienza diretta ma sulla sua immagine: un po’ come ridurre la sessualità alla pornografia. Ma se il racconto non si basa più su esperienze partecipabili e, addirittura, non si fa più esperienza, muore anche la narrazione. Di qui, a mio parere, la povertà di tanta letteratura contemporanea, o banalmente distraente o narcisisticamente autoriferita. Per questo mi commuovo quando rileggo il passo di Calvino citato sopra. La “realtà” ormai coincide con la sua rappresentazione, nel nostro immaginario troviamo soltanto i racconti dei media e rischiamo di non dare più voce all’inespresso.
Non occorre però essere kantiani per sapere che ogni cosa si nasconde dietro le sue apparenze: la trama nascosta dell’essere è più forte di quella delle sue apparenze, come diceva Eraclito. E per Klee “l’arte non riproduce ciò che è visibile ma rende visibile ciò che non sempre lo è”.
Ma non come fa il “realismo psicotico” (Mario Perniola) del cosiddetto new realism o addirittura neo-neorealismo (gli studiosi e i critici letterari sono fervidi creatori di etichette). E nemmeno come quello della letteratura di genere, in cui molti lettori si rifugiano, esausti di quei selfie appena ritoccati che sono molti romanzi italiani di questi anni. Ma piuttosto come in una proiezione geometrica al contrario: non uno sguardo centrale che si irradia, si proietta sul mondo ma il mondo esterno che si concentra, si focalizza in una personalità, in una sensibilità reattiva che a sua volta ci restituisce la realtà filtrata da una soggettività. Narrazione, appunto.
Sembrerebbe impossibile in un’epoca in cui il reale, come teorizzava anche Lacan, è diventato indicibile, il mondo vero è diventato favola e la realtà si confonde con la sua rappresentazione.
La conclusione provvisoria di queste disordinate considerazioni potrebbe essere una remota storia raccontata da Martin Buber nella sua raccolta di storie e leggende chassidiche.
Il Rabbi di Rizin raccontava: “Un giorno che il santo Baalshemtov voleva salvare la vita di un ragazzo malato a cui voleva bene, fece fondere una candela di cera pura, la portò nel bosco, la fissò a un albero e l’accese. Quindi recitò una lunga formula. La luce rimase accesa tutta la notte. Al mattino il ragazzo era guarito.
Un giorno che mio nonno, il grande Magghid scolaro del santo Baal Shem Tov, volle ottenere una simile guarigione, non conosceva la segreta intenzione della formula. Fece ciò che il suo maestro aveva fatto e invocò il suo nome. L’opera riuscì.
Un giorno che Moshe Loeb di Sasow, scolaro di uno scolaro del Grande Magghid, volle ottenere una simile guarigione, disse: «Noi non abbiamo neppur più la forza per farlo. Ma racconterò la vicenda e Dio aiuterà». E l’opera riuscì”.