L’inizio è una testimonianza raccolta da R. Zibechi un paio di anni fa: «Nel continente americano praticamente non c’è nessuno, nelle aree vicine a un progetto minerario, che non abbia qualche procedimento giudiziario aperto». Parte da questa considerazione il ponderoso libro di Xenia Chiaramonte Governare il conflitto. La criminalizzazione del Movimento No Tav (Meltemi, 2019, pp. 372), che assume la vicenda ormai trentennale dell’opposizione alla Nuova Linea ferroviaria Torino-Lione come modello e paradigma delle tecniche “di accerchiamento” (per usare un’espressione di Foucault) con cui l’establishment cerca di controllare e imbrigliare, nel mondo intero, i movimenti che contestano lo status quo.
Le manifestazioni più eclatanti di questa strategia sono, in Val Susa, la militarizzazione del territorio, la delegittimazione mediatica e il ricorso abnorme alla repressione penale. Chiaramonte le indaga facendo ricorso a citazioni giornalistiche (tratte da sette quotidiani: Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, il manifesto, il Fatto Quotidiano, il Giornale, Libero), a documenti giudiziari (relativi soprattutto al maxiprocesso per i fatti del giugno-luglio 2011 connessi con lo sgombero della Maddalena e alle accuse di terrorismo mosse ad alcuni militanti) e a numerose testimonianze raccolte in valle in oltre un anno (nella scia di una lunga storia orale che ha avuto la sua ultima, ricca espressione in Contrade. Storie di Zad e No TAV, a cura del collettivo Mauvaise Troupe, pubblicato nel 2017 da Edizioni Tabor). Il quadro d’insieme è di grande impatto e aggiunge significativi elementi di novità nel panorama delle oltre cento pubblicazioni ormai intervenute sul Movimento No TAV (catalogate con certosina precisione dal Centro di documentazione Emilio Tornior promosso dal Controsservatorio Valsusa).
La militarizzazione del territorio parte dal giugno 2011. Da allora la valle conosce, in funzione di controllo, la presenza continua non solo di ingenti forze di polizia ma anche di contingenti dell’esercito, alcuni dei quali già impegnati in teatri di guerra; e vasti territori sono diventati“zone rosse” in cui è vietato l’accesso in forza di interventi legislativi ad hoc (che hanno trasformato il cantiere di Chiomonte e le sue adiacenze in «aree di interesse strategico e militare») e di ordinanze prefettizie, emesse in via di urgenza, che si sono susseguite senza soluzione di continuità per oltre otto anni e in numero di ben 39 (sic!).
L’immagine dei No TAV fornita dalla stragrande maggioranza dei media (sole eccezioni il manifesto e Il Fatto Quotidiano) è univoca e letteralmente sovrapponibile: borderline, nemici pubblici, violenti a prescindere o terroristi tout court (secondo il modello forgiato, nella nostra informazione del terzo millennio, da Emilio Fede che nel Tg4 pomeridiano del 20 luglio 2001, a commento delle manifestazioni di Genova contro il G8, usò questa delicata prosa: «Quelli che stanno protestando sono drogati, pezzenti, bande di delinquenti che dovrebbero essere arrestati e tenuti in galera a vita»). Valga per tutte una citazione tratta da Repubblica del 1° marzo 2012 a commento della vicenda del manifestante immortalato mentre apostrofa con il termine “pecorella” un carabiniere in assetto antisommossa, definito dal giornalista «un cinico maramaldo che infierisce su un carabiniere silenzioso»: «Da anni, da molti anni, la Val Susa è anche questo. Una schizofrenia collettiva che trasforma la brava gente in truci eversori, gli impiegati in bombaroli, come cantava De Andrè».
Quanto alla repressione giudiziaria, la sintesi sta in centinaia di procedimenti penali contro più di 1500 persone (numero senza pari sulla scena nazionale, considerata la ristretta area territoriale in cui i reati sono stati commessi) e in iniziative e provvedimenti inediti per gravità e reiterazione, che si spingono sino alla contestazione del delitto di attentato con finalità terroristiche (e connessa custodia in carcere per un anno in condizioni di prolungato isolamento) nei confronti di quattro giovani responsabili di un “assalto” al cantiere della Maddalena con incendio di un compressore e alla riesumazione di un reato di opinione come l’istigazione a disobbedire alle leggi, contestato allo scrittore Erri De Luca per avere sostenuto la liceità del sabotaggio del cantiere con taglio delle reti.
Superfluo continuare nell’esemplificazione. Meglio sottolineare che il libro di Chiaramonte non si ferma al pur ricco e prezioso racconto della situazione ma ne offre, nella parte finale, una lettura particolarmente stimolante. Secondo questa lettura, nella vicenda della Val Susa sparisce la nozione stessa di Stato-comunità, sostituita da quella di Stato-apparato (identificato tout court con la società) la cui difesa diventa l’unico obiettivo «comune alla polizia, ai procuratori, ai magistrati inquirenti e ai giudici» e di fronte a cui i reciproci controlli, gli equilibri, le indispensabili divergenze soccombono lasciando il posto a una continuità non solo accettata ma rivendicata. In una prospettiva, per di più, in cui la società-Stato va difesa non dai danni inferti ma dai pericoli e dalle stesse intenzioni dei suoi nemici, con interventi e punizioni esemplari, diretti a colpire ed educare più «il target di popolazione di cui l’individuo indagato fa parte, che non lui in quanto tale». L’esito è una moderna rivisitazione dei soggetti “socialmente pericolosi” contro i quali si erge (deve ergersi) «una magistratura sempre meno garante dell’individuo (soggetto di diritto) e sempre più manager di una immaginata società uniforme».