Il quadro della realtà torinese che Maurizio Molinari, direttore del quotidiano La Stampa, ci dipinge domenica 11 novembre, a commento della manifestazione Sì-Tav svoltasi a Torino il giorno precedente, è, se attendibile, fonte di serie preoccupazioni.
È un affresco il suo che richiede un’osservazione attenta, perché, per dipingerlo, egli ha adottato una tecnica vecchia come il mondo: la tecnica praticata dal Potere quando intende liberarsi di un suo avversario. Una tecnica che consiste nel riconoscere a se stesso tutte le virtù e nell’attribuire all’altro tutti i vizi. Ché la finalità vera di questa tecnica non è di fornire informazione, bensì piuttosto di dare al lettore l’opportunità di identificarsi con una parte favorendo il rigetto dell’altra. Ogni ipotetico spazio per un eventuale dialogo, ogni possibile confronto tra le parti sono così esclusi a priori.
Ma, affinché l’operazione abbia buone probabilità di successo, almeno due condizioni vanno soddisfatte: la prima, che molte delle virtù che vengono celebrate presso l’una parte siano largamente condivisibili; la seconda, che tra i vizi attribuiti all’avversario alcuni tocchino aspetti particolarmente importanti. In ogni caso, l’effetto finale è la costruzione di una netta, all’apparenza insanabile, contrapposizione tra un “noi buoni” e un “loro cattivi”, ché la difesa dell’Alta Velocità è percepita dalla città come la linea rossa tra sviluppo e decrescita.
Il pezzo scritto da Molinari costituisce dunque un buon esempio di applicazione di questa tecnica, a partire dalla prima pagina del quotidiano che, in un’immagine a tutta pagina della piazza Castello, titola: “Torino, l’altra Italia”. A commento della quale egli scrive: «c’è un’Italia […] che non ama gridare ma fare, che crede nella responsabilità personale, nel rispetto del prossimo, nelle istituzioni della Repubblica, […] nella forza incontenibile della libertà contro ogni tipo di oppressione, ideologia, insulto, offesa, minaccia e disprezzo. E sono i torinesi di ogni estrazione, origine, fede, genere ed età che sono scesi in piazza». Un’altra Italia di «donne e uomini, famiglie etero e gay, impiegati ed operai, professionisti, studenti, pensionati ed artigiani». Che poi sia vero o meno che tutti i ceti sociali sono rappresentati in quella piazza, poco importa. D’altronde non è ancora stata inventata una metodologia che consenta, con un colpo d’occhio, di conoscere la stratificazione professionale di decine di migliaia di persone. Conta invece rendere l’immagine di un corpo sociale compatto, preparato «ad affrontare e vincere le sfide dell’innovazione sul mercato globale», un corpo sociale in cui il lettore può, per così dire, accasarsi. Una specie di Heimat per chi – e sono molti – è alla ricerca di un “luogo” dove potersi indovare.
A questa società ordinata, di chi ama “il duro lavoro”, di chi rispetta lo “Stato di diritto”, viene contrapposto un insieme identificabile, in prima battuta, con «gli estremisti della decrescita». Un insieme di individui – ci ammonisce Molinari ‒ la cui distruttività e potenziale pericolosità non devono essere sottovalutate. Non soltanto perché essi esibiscono proprio quelle modalità di comportamento da cui sono invece esenti i trentamila di piazza Castello (come il ricorso a insulti, offese e minacce). Non soltanto perché essi «non proteggono le famiglie da insicurezza, diseguaglianze e degrado». Più in generale, le loro priorità sono «tutte in negativo». Così essi sono, ad esempio, contro «i mezzi di informazione […], i sindacati […], i migranti e tutti i cittadini che non la pensano come loro».
Dunque, per riassumere, abbiamo, da un lato una piazza che coglie la “sfida della modernità”, nel rispetto dell’altro e dello Stato di diritto, e, dall’altro lato, un’entità estremista che con la sua condotta mina le basi stesse della civile convivenza, rivelandosi incapace o non disposta, nel piccolo (la famiglia) come nel grande (la società italiana, l’Europa), a proporre qualcosa di costruttivo.
Non sapremo mai con certezza se Maurizio Molinari sia riuscito nel suo intento. Ma ci ha provato.
Sta a noi continuare a denunciare il servilismo nei confronti del Potere, proprio in nome di quella libertà che, secondo lui, sarebbe minacciata dagli estremisti della decrescita.