Chi è rifugiato e chi no?

image_pdfimage_print

Ulet era un ragazzo somalo di quindici anni che era stato ridotto in schiavitù in Libia. Agus Morales, il grande reporter spagnolo, nel suo libro Non siamo rifugiati racconta di aver visto il ragazzo salire su una nave di soccorso con una canottiera gialla e dei segni neri sul coccige. Non riusciva a camminare da solo: “Era un uccello sgraziato con le ali ferite”. “Mamma” e “Coca Cola” erano le uniche parole che era in grado di pronunciare. Era solo. Un minorenne senza famiglia né amici. I somali che viaggiavano insieme a lui dicevano che era stato torturato in un centro di detenzione in Libia, dove lo costringevano a lavorare, senza dargli né acqua né cibo. Il suo ultimo atto di libertà era stato guardare il mar Mediterraneo.

Morales inizialmente voleva scrivere un libro sui rifugiati, e l’aveva quasi terminato, quando si sorprese a pensare proprio a Ulet, rendendosi conto che quel ragazzo non era un rifugiato come i molti che aveva già incontrato. Si ricordò anche che per la popolazione rifugiata è un insulto venire interrogata su cosa faccia fuori dal proprio paese: se n’è andata in massa, costretta, a causa della guerra.

La popolazione espatriata – spiega Morales – è cresciuta nel XXI secolo perché gli esodi generati dalle nuove guerre, come quella in Siria, si sono andati a sommare ai conflitti ristagnanti, come quelli in Afghanistan o in Somalia, che affondano le loro radici nella Guerra Fredda o nei primi anni del nuovo ordine mondiale. Più che un mondo in cui trionfa la guerra, allora,”è un mondo dove la pace fallisce”.

Rifugiati, profughi, migranti economici: chi è rifugiato e chi non lo è? Chi ha il diritto di migrare e chi no? Non si tratta solo di categorie “perverse”, ma anche inutili a capire questo universo in movimento: un mondo che muta troppo velocemente. Sperimentiamo cambiamenti intimi, legati ai sentimenti, economici. E il volto dei rifugiati, degli immigrati, dei “barbari” – dice Morales – è quello di questo cambiamento storico: il terreno simbolico in cui si discute del futuro che riguarda ognuno di noi. Esistono ora decine di milioni di persone che non sono rifugiati, ma questo avviene semplicemente perché non gli concediamo asilo. Tra qualche decennio, forse saremo tutti rifugiati di noi stessi.

È vero – suggerisce l’autore stesso – il suo è un lavoro insolito, che consiste nel vedere cose che molti non vedranno mai: “Grandi disastri e piccoli tradimenti, speranze perdute e attese; osservare la morte cosí da vicino come tanti la vedranno una sola volta”. E cercare qua e là temi decisivi su cui interrogarsi.

 

[Questa recensione è stata pubblicata anche su Huffington Post]

Gli autori

Antonella Tarpino

Antonella Tarpino è una storica, pubblicista ed editor. Negli ultimi anni si è concentrata sul tema della memoria e del paesaggio, in particolare dei suoi aspetti marginali e dimenticati. Tra i suoi scritti: "Il paesaggio fragile. L'Italia vista dai margini" (Einaudi, 2016) , "Spaesati. Luoghi dell'Italia in abbandono tra memoria e futuro" (Einaudi, 2012 - Premio Bagutta), "Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani (Einaudi, 2007).

Guarda gli altri post di: