Prendersi cura del mondo

Volerelaluna.it

27/09/2018 di:

 

Premetto che quanto segue non è obiettivo, anzi è pregiudizialmente fazioso in positivo. Lo dichiaro subito: nutro una passione smodata per Paolo Nori scrittore. Essendo io bolognese di origine, mi riconosco nel ritmo della sua prosa, cadenzata sulla musicalità dell’accento emiliano (lui è di Parma, ma vive a Casalecchio di Reno). Già questa capacità di inventarsi una scrittura raffinatissima basata però sull’oralità, con mescidanza di alto e basso, è nella linea espressionista della letteratura italiana, ma dote rara negli scrittori contemporanei.
Poi Nori è un conferenziere-attore, e le sue pubbliche esibizioni (molte delle quali si possono vedere in rete) sono esilaranti e controcorrente. Penso che Nori non finga, penso proprio che sia autenticamente matto: non lo conosco di persona ma ne sono convinto. O almeno, se non proprio matto, falotico: di una bizzarria che a me ricorda molto un certo mood irlandese, alla Flann O’Brien o alla Sterne. E in effetti l’area tra Cremona e Mantova e poi scendendo fino a Bologna ma includendo l’Appennino e Piacenza, Parma, Modena e Ferrara ha prodotto una serie di scrittori (e anche di cantanti e attori-autori: Guccini e Bergonzoni e Gene Gnocchi, per far solo tre nomi) diversissimi tra loro anche per esiti espressivi e formali ma accomunati da questo spirito bizzarro e insieme terragno. Penso al naïf Ghizzardi, caro a Zavattini (e recentemente protagonista di una bella rievocazione teatrale di Silvio Castiglioni), ma anche all’ultracolto Celati, punto di riferimento per molti più giovani, o a Cavazzoni, al primo Malerba, al discreto e appartato Barbolini, a Danilo Benati, Ugo Cornia, Paolo Colagrande e altri che si leggono nella felice collana “Compagnia Extra” di Quodlibet o da Sellerio o da Marcos y Marcos e talvolta pure da Feltrinelli e Nottetempo. Anche l’umbratile ed erudito Giampaolo Dossena o Antonio Delfini, amatissimo da Cesare Garboli, possono rientrare in questa “scuola emiliana” che attende ancora il suo Dionisotti. Gusto affabulatorio e digressivo, lingua pastosa, personaggi strambi, osservazioni filosofiche solo apparentemente da bar, una certa saggezza rassegnata fino al buon senso ma subito innervata da guizzi biliari o di realismo materico, sono, con quanto detto sopra, i contrassegni di questi autori.
Paolo Nori è anche esperto di letteratura russa (con una tesi di laurea su Chlebnikov) e traduttore di parecchi scrittori russi. Uno dei suoi libri che preferisco, oltre ai discorsi tenuti agli studenti ad Auschwitz (Si sente?, Marcos y Marcos), non c’entra con la letteratura ma è un saggio: Strategia della crisi, Città Nuova, dove scrive: “(…) ho l’impressione che un modo bello di cambiare le cose sarebbe bene che non partisse dalla presunzione che noi siamo bravi, ma dalla consapevolezza che siamo deboli, difettosi, insignificanti, e io ho l’impressione, magari mi sbaglio, ma ho l’impressione che la nostra debolezza, la nostra insignificanza, i nostri difetti, siano le cose più importanti che abbiamo e che abbiamo bisogno di quelle, non abbiamo bisogno di supereroi.” Parole che mi sembrano quanto mai opportune nella situazione in cui ci troviamo.
Quest’estate è uscito La grande Russia portatile, Salani, in cui Nori racconta, col solito procedimento divagante, le sue esperienze trentennali in Unione Sovietica: le preferenze letterarie, le amicizie, le biblioteche di Pietroburgo e di Mosca, il popolo, i militari, le censure subite dagli scrittori, il passaggio di regime, le file per il pane o per la carta igienica, la crisi costituzionale del 1993, l’arrivo dei miliardari… Apparentemente sembra un’insalata russa (chiedo scusa per il bisticcio); di fatto, oltre che una impegnativa dichiarazione d’amore (“per me la Russia è il posto dove sono diventato grande”), un caleidoscopio, spesso esilarante sempre di grande concretezza, di personaggi, di letterati, di artisti, di luoghi, di astuzie e di ingenuità, di sospetti e di sbronze. Chi è stato anche una sola volta in URSS alla fine degli anni Ottanta – inizio Novanta si riconosce e riconosce l’atmosfera tra l’impaurito e l’effervescente di quel periodo. Ha ragione l’autore quando verso la fine scrive: “Questo libro viene un po’ fuori dall’idea che sarebbe forse sensato fare un libro composto da racconti semplicissimi che raccontano le cose che sono successe a uno straniero posseduto dalla letteratura e dalla cultura russa, e i giri, e le avventure, e le guerre che ha visto, e vissuto, e percorso in virtù di questa possessione (…)”.
E qui di racconti ce ne sono tanti, anche terribili. (Mi è dispiaciuto però che non sia citata l’infame e tragica vicenda di Mejerchol’d, imprigionato e fucilato il 2 febbraio 1940, e di sua moglie, l’attrice Zinaida Rajch, uccisa in casa da due sicari mentre il marito veniva torturato alla Lubjanka. I vicini, che avevano sentito le urla disperate della poveretta, dissero poi che pensavano stesse provando una scena teatrale… Nel giro di 48 ore l’appartamento venne sgomberato e diviso in due: una parte fu assegnata a una segretaria di Beria e l’altra all’autista. Si veda tutta la documentazione raccolta da Fausto Malcovati in: Vsevolod E. Mejerchol’d, L’ultimo atto. Interventi, processo e fucilazione, La casa Usher).
E la morale che si trae alla fine di queste 180 pagine, veramente una grande Russia portatile in cui tragedia e umorismo si alternano, è esplicita: “E allora bisogna poi stare attenti (…). Cioè secondo me il rischio è di trasformarci tutti in strumenti. Delle belle vanghe. Belle luccicanti. Sono molto utili, le vanghe. Perché quello che ci muove ad andare a visitare i campi di concentramento oggi (…) nel 1940 ci avrebbe mosso in una direzione opposta e contraria e noi, esclusi due o tre, avremmo ubbidito. Tra le braccia della Storia, avremmo fatto il nostro lavoro docili e utili come delle vanghe. Mi dispiace, ho detto [si riferisce a un discorso fatto ad Auschwitz in Polonia], ma avremmo fatto così, secondo me.”