Louis Oreiller è un anziano (85 anni) valligiano della Val di Rhêmes (Aosta) e ha da poco pubblicato, con Irene Borgna, una brillante allieva di Marco Aime che ha saputo riprodurre senza pedanterie glottologiche il ritmo e le cadenze del parlato, Il pastore di stambecchi (Ponte alle Grazie).
Rhêmes Notre Dame è un comune di 88 abitanti, a 1.725 metri, alla fine di una valle stretta, che comincia ad allargarsi proprio nella conca in cui si adagia il borgo, chiusa in fondo da una bellissima corona di cime che si alzano su quel che resta dei ghiacciai. Dall’altra parte c’è la Francia, con la Val d’Isère, e i contatti dei rhêmeins in passato erano forse più frequenti coi francesi che con gli italiani di pianura.
Metà valle è nel territorio del Parco Nazionale del Gran Paradiso; l’altra metà è ora una riserva di caccia dalle pareti molto scoscese, ma in passato, con pazienza montanara, gli abitanti ritagliavano dei minuscoli terrazzamenti per coltivare patate e segale. Da questo versante rotolano grandi valanghe, che un tempo isolavano il paese anche per parecchi giorni. (Ora hanno costruito delle gallerie, ma ogni tanto d’inverno la strada resta chiusa lo stesso. E talvolta per il peso della neve si spezzano i fili della luce o cade un palo e l’isolamento è di nuovo totale.)
Nel libro si racconta di un inverno (quello del 1952) in cui Rhêmes rimase isolata a lungo e ci vollero più di tre giorni per aprire la strada fino a Villeneuve, il paese di fondovalle, con l’aiuto anche di una mula straordinaria, uno dei tanti animali, domestici e non, che popolano il libro.
In quell’anno nel paese c’erano 22 muli, 3 cavalli e 2 somari. Un po’ di mucche, qualche pecora e qualche maiale. Ora ci sono solo poche galline e una ventina di mucche.
La vita era durissima, se non per tutti per molti: polenta a mezzogiorno e minestra con pane di segale e un po’ di fontina la sera. In autunno chi l’aveva uccideva la pecora e ne congelava il sangue in forma di mattonella, che poi d’inverno tagliavano a fettine e mettevano nell’acqua bollente per darle sostanza. Alle puerpere si regalava, dono prezioso, un panetto di burro. Louis a 11 anni lavorava già e, come dice nel libro, “la vita era così dura che per un bambino era più semplice morire che diventare adulto”.
“Adesso – dice ancora Louis – le montagne si svuotano di neve e si riempiono di persone”, ma negli anni Cinquanta nei lunghissimi inverni restavano in paese non più di 6–7 persone. Anche ora gli inverni durano almeno sei mesi, da novembre a tutto aprile, e le tenebre calano prestissimo perché il sole, già basso di suo per la stagione, sorge e tramonta più volte, per così dire, dietro le cime che circondano la valle. E verso le 14,30 – 15,00 tramonta del tutto dietro la vetta della Grande Rousse.
Bracconaggio e contrabbando con la Francia erano praticati per necessità: Louis ragazzo attraversava il ghiacciaio di confine portando riso e sale in Francia e al ritorno pelli di mucca che poi venivano vendute ai calzolai della zona di Ivrea. E per attraversare il ghiacciaio c’erano scarpe con tomaie rimediate alla meglio e suole di legno su cui si piantavano dei chiodi a far da ramponi.
Del resto nella prima metà del Novecento molti rhêmeins, anche poco più che bambini, emigravano a far gli spazzacamini in Piemonte, in Francia, in Belgio e in Svizzera. “Lontano – dice Louis – è dove le voci suonano sempre straniere”.
Ho conosciuto Louis Oreiller nel 1963: io ero poco più che un ragazzo, lui un giovane uomo che con sua moglie Nathalie formavano la coppia più bella della Val di Rhêmes. Con lui ho attraversato ghiacciai e percorso itinerari segreti sui monti della valle. Da lui ho sentito narrazioni straordinarie, molte delle quali sono ora raccolte nel libro, fedelmente e intelligentemente rese da Irene Borgna. Dai suoi racconti ho tratto lezioni di vita. Anche sulla vecchiaia e la morte. Racconta Louis:
«Nonno Vittorio è nato nel 1868, cento anni prima di mio figlio Silvio, ma è morto giovane. Un giorno, aveva 52 anni, ha detto a sua moglie e ai suoi figli: “Guardate quei frassini, cominciano a mettere le foglie. Quando le perderanno io vi lascio.” Era una bella giornata di primavera, il nonno era in salute e non beveva, per questo gli altri in famiglia si sono messi a ridere e così bon, si son bell’e dimenticati di tutta la faccenda. Passano i mesi e viene una notte ventosa d’autunno: al mattino le foglie dei frassini erano a terra. Il frassino è un albero debole, le foglie si staccano per niente, è già strano che sia cresciuto lì a Melignon. Allora il nonno si è lavato, si è fatto la barba, ha chiesto i vestiti buoni alla nonna, che ha brontolato un po’ – “Ma perché vuoi i vestiti della festa?” –, però alla fine glieli ha dati. Si è vestito di tutto punto, ha mangiato mezza patata lessa e un piccolo pezzo di formaggio e si è appisolato sul balcone con la pipa: di solito stava lì quei venti minuti. Mia mamma era la più piccola e una delle sorelle le ha detto: “Tina, oggi son poi cadute le foglie”, e rideva. Ma quando sono andate dal nonno, il nonno era via. (…)
Il giorno che si alzerà il vento destinato alle mie foglie e sarà l’ora di andare, avrò l’unica preoccupazione della legna che non sarò riuscito a tagliare in tempo, dei lavori lasciati a metà e su tutto il pensiero di Nathalie sola e di Silvio lontano. Ma io sono come gli stambecchi: quando sentono un colpo di fucile e vedono cadere un compagno stanno immobili per un pezzo. Sono così lenti che ci vogliono due o tre colpi per fargli capire il pericolo – solo allora scappano. Io non ho né fretta né paura. E mi muovo con cautela sulle cenge della mia età per non fare passi falsi.
Quando sarà il momento, quando il colpo che sentirò fischiare sarà quello per me, lascerò alle spalle quei pochi che chiamo famiglia, la casa che ci appartiene da molte generazioni, qualche racconto e tutti i segni che ho lasciati impressi nella valle: il bivacco di Goletta, l’altare in legno di una piccola cappella, la nicchia della madonnina al Pellaud, un san Marco col leone a Plan Folliez, qualche fioriera, il tavolo al Pechoud con incise le mie iniziali. E un mucchio di attrezzi validi e forse più nessuna mano che li vorrà adoperare per aggiustare o sostituire, per modellare il legno e lasciare la propria firma su un oggetto fatto per resistere al tempo, proprio accanto alla mia».
Ora siamo entrambi anziani e Louis è uno dei miei grandi amici e maestri, come, per altri versi, lo sono stati Roberto Cerati e Paolo De Benedetti in editoria e il mio professore di storia e filosofia al liceo, poi diventato amico di una vita.
Di Louis ho sempre ammirato più che imparato, ahimé, la non fretta, cioè l’accuratezza nel lavoro. Non solo adesso che è anziano: era così anche da giovane. Qualunque cosa faccia, la fa con tranquilla e concentrata ponderatezza. E ricordo bene le volte che abbiamo camminato insieme, e non solo sul ghiacciaio: trasmette calma, lui che di carattere è impaziente e fumantino.
Come tutti quelli che dalla natura traggono direttamente il proprio sostentamento materiale e non, come noi cittadini, per via mediata, Louis da giovane aveva un rapporto strumentale con la montagna, i suoi animali, i suoi alberi, i suoi pascoli, le sue acque. Non ne abusava perché sapeva che era un bene prezioso, da non sciupare né sperperare, ma la vedeva come un bene da curare perché utile. Con gli anni, soprattutto nei lunghi anni di guardiaparco e di guardiacaccia, il suo atteggiamento è cambiato. Non era più il signore-padrone della natura, ma parte di un unico cosmo, solidale con esso e della stessa sostanza. Senza le smancerie e gli squittii estetizzanti dei cittadini che consumano il bello naturale anziché sentirlo fraterno. In proposito non dimentico una storia meravigliosa raccontatami una volta da Cesare Garboli su un noto letterato che una sera a Monte Rotondo si accompagnava a Padre Pio e, ammirando i cipressi al tramonto, in stato di estasi esclamò: “Ah, Padre, che commozione quegli alberi che svettano sul rosso del sole calante!” e il tremendo ma lucido cappuccino di rimando: “Ma figliolo, ancora a questo punto siamo?!”.
No, Louis non ha queste smancerie cittadine, con gli anni ha conquistato la consapevolezza di far parte di un unico Tutto, sa che la linfa che scorre negli alberi è la stessa forza vitale che scorre nelle sue vene, che il cielo diurno e notturno è una scrittura da interpretare, che anche la roccia è viva (certamente non ha mai letto Schelling, ma non mi ricordo più in quale suo testo il grande romantico sostiene che le pietre sono vita momentaneamente bloccata). E che puoi ascoltare gli alberi: non solo il fruscio delle foglie agitate dal vento, ma il linguaggio dell’intero albero, le risposte che il tronco manda se lo picchietti leggermente. In sintesi: quello che un tempo era rispetto utilitaristico negli anni è diventato un rispetto fraterno e riconoscente. Per questo prima di tagliare un albero per farne legna per l’inverno lo studia e lo “interroga” per capirne l’età e la vitalità. Per questo, nei passaggi difficili, chiede il permesso alla montagna. Per questo comprende gli animali, anche quelli selvatici e non solo camosci e stambecchi: dai corvi all’ermellino, dalla faina al gipeto. E memorabili sono, in queste pagine, le storie che racconta dei suoi cani, dei cuccioli di stambecco, dei vitelli malati e guariti grazie alle sue cure, magari non ortodosse ma efficaci. Del resto non erano ortodosse nemmeno le vecchie ricette casalinghe con cui i montanari di un tempo curavano un dito congelato (immersione nello sterco tiepido di mucca e digiuno) o una frattura ossea (spalmando miele sulla parte e poi legandoci sopra della cotenna di maiale).
Ma oltre che la ponderatezza e la relazione particolare, simbiotica, con la Natura, c’è un terzo tratto della personalità di Louis che colpisce: il rispetto per il lavoro e per l’oggetto del lavoro. Che scolpisca un pezzo di legno o tagli un albero o faccia legna o curi le galline o ripari un qualche attrezzo, c’è sempre una sorta di cura amorevole mai esibita nel gesto ma che nasce da dentro e anima segretamente l’azione.
Il modo in cui tocca il legno o gli attrezzi, ma anche la corda quando si preparava per andare sul ghiacciaio con qualcuno, il rapporto che un tempo aveva coi cani e con gli animali in genere, anche quando li cacciava, non è mai puramente strumentale o, peggio, “antropomorfizzante”: ognuno resta al suo posto, rispetta le distanze, riconosce istintivamente un ordine e una gerarchia. Lui, guascone con gli umani, si trasforma quando è solo col mondo e con la natura: non ci sono più gara o sfida, cessa ogni spirito competitivo, non deve dimostrare niente a nessuno: la montagna non è un avversario da conquistare ma un’amica che sai più forte di te e che ami rispettandola come una compagna di vita.
Personalmente penso che il caso governi le nostre vite. Poi sta a noi trasformare il caso in destino.
Le occasioni di vita di Louis son state casuali e, nello stesso tempo, obbligate dal contesto ambientale e sociale: lui ha saputo farle proprie e crescere con esse. Per questo il racconto della sua vita è anche un “romanzo” di formazione: da giovane era impulsivo e poteva anche essere violento; poi la montagna (con le sue creature) lo ha progressivamente trasformato ed è diventata la sua compagna di lavoro e infine il suo cosmo, come era per i nostri lontani antenati. La sua figura infatti appartiene a un mondo apparentemente immutabile, e remoto rispetto alla frenesia, al narcisismo, alla superficialità sovreccitata delle nostre vite; ma i suoi valori, anche inconsapevoli, hanno ancora un significato per chi cerca una via d’uscita dalla trappola in cui ci siamo cacciati