Il prof fannullone

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Una coppia di insegnanti torinesi è al mare con i bambini per trascorrere una giornata di sole, di bagni e di giochi, quando, dall’ombrellone vicino, li raggiungono parole che purtroppo non sentono per la prima volta:

«Certo è proprio comodo fare l’insegnante: prima le vacanze di Natale, poi quelle di Pasqua, tutti i ponti possibili e immaginabili e poi tre mesi di vacanza d’estate! Comoda la vita! Lo farei anche io il professore: stipendio fisso per poche ore di lavoro, che pacchia!».

Questo è il punto di partenza per una lunga, appassionata, a tratti ironica, a tratti drammatica, confutazione delle «accuse infondate e inquietanti degli spiaggianti in questione». I due insegnanti si chiamano Chiara Foà e Matteo Saudino e provano a offrirci, con il loro libro [Il prof fannullone. Appunti di una coppia di insegnanti ribelli nell’esercizio del mestiere più antico del mondo (o quasi), edizioni NuovaAphromos], una fotografia il più possibile completa della scuola italiana, partendo dalla domanda: «Quando abbiamo avuto la folle idea di fare il mestiere più bello del mondo?».

Per spiegarlo a se stessi, e a noi, rievocano innanzitutto l’incontro con le loro grandi passioni: la storia e la scrittura, per Chiara, e la filosofia, per Matteo. Motivati da scelte serie e profonde, che li accompagnano ancora, i due autori si sono, però, trovati subito all’interno di un labirinto, quello delle norme che in Italia regolano il reclutamento dei docenti. Per tentare di trovare una strada sono entrambi finiti, e così si sono anche conosciuti, all’interno di un luogo che paragonano, giustamente, al Purgatorio: il diplomificio. Il luogo, cioè, in cui si possono recuperare due, tre, quattro o anche cinque anni in uno, governato con regole speciali e caratterizzato da rette alte per i discenti e salari bassi per i docenti, considerati “collaboratori intellettuali non continuativi”, anche se lavorano regolarmente e per anni nella stessa scuola.

Le scuole paritarie modello diplomificio offrono, poi, un’ulteriore possibilità: al loro interno, come avviene nelle scuole statali, si possono anche sostenere gli esami di idoneità per alunni privatisti, che giungono alle prove dopo una preparazione individuale. Ovviamente, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di ragazze e di ragazzi che hanno frettolosamente immagazzinato una massa di nozioni, che non sono in grado di ordinare ed esporre. Matteo ci racconta dei colloqui di filosofia, dei suoi 4, trasformati nello scrutinio in 6 e seguiti dal mancato rinnovo della “collaborazione”, e conclude così le sue considerazioni: «Tornato a casa, mi sdraiai esausto sul divano e lentamente un incubo mi assalì: e se tra qualche anno la scuola pubblica statale dovesse assomigliare sempre più a questi luoghi? Presi un chinotto dal frigo e scacciai il pensiero, derubricandolo alla voce fantascienza orrorifica in compagnia de La cosa di Carpenter. Era il 2002 e dopo pochi anni arrivarono la Gelmini e la Giannini».

Dopo il diplomificio inizia il viaggio nella scuola pubblica, analizzata attraverso: i “vicepresidi”; i dirigenti scolastici e il project management; la classificazione ironica – che ricorda Starnone – di vari collegi dei docenti: modalità Ventennio, Drive-In, Repubblica di Weimar, Agorà, 2.0. Il più diffuso sembrerebbe il Collegio modalità “Centro commerciale – siamo aperti anche di domenica”:

«Esso è retto da un DS, che si sente sempre più un top manager di una grande azienda, ma che, in realtà, gestisce la scuola come se fosse un centro commerciale di periferia, in cui al posto dei vari negozi e delle diverse attività, ci sono i vari dipartimenti o i singoli docenti, ognuno dei quali porta avanti i vari progetti, cercando di ottimizzarne i risultati e di ottenere visibilità e prestigio per l’istituto. Progetti informatici, linguistici, sportivi, teatrali, di educazione alla salute, civica, alimentare, stradale, contro il fumo e l’alcol, e chi più ne ha più ne metta».

Tante offerte per tanti allievi, spesso stipati nelle “classi pollaio”. Allievi di cui si sottolineano le esigenze assai differenti, a volte anche attestate dalla sigla BES (bisogni educativi speciali) o HC (allievo con handicap certificato). La didattica personalizzata, invocata ufficialmente anche dal Ministero, si scontra però con la grande varietà dei bisogni, con il numero eccessivo degli alunni per classe, con l’attuale impossibilità di misurare il percorso compiuto dallo studente, parlando di livelli di partenza e di impegno dimostrato, e abbandonando l’aridità dei numeri, imposti dalla riforma Gelmini.

Qui emerge il tema principale, che sottende tutto il libro: la scuola italiana è una scuola democratica? Corrisponde alla Costituzione democratica che ci siamo voluti dare, come chiedeva Calamandrei?

La risposta di Foà e Saudino assume toni molto negativi, quando osservano, giustamente, che «nella scuola pubblica, laica, statale, certe cose non dovrebbero capitare». Ne indicano alcune, tutte significative, ma scelgo di citarne una sola perché mi sembra rappresentativa di una discriminazione che giunge proprio quando e dove meno ce lo aspettiamo. Un’insegnante di lettere, che organizza uno spettacolo teatrale non in costume sulla Shoah, ha nella sua classe una gentile e educata ragazza marocchina che pone di fronte alla seguente scelta: «Se vuoi recitare togli lo hijab (per intenderci il copricapo islamico, non il velo o il chador, ma per la collega tutto equivaleva al burqua), altrimenti non potrai partecipare, decidi tu, ovviamente».

La ragazza, pur con molta sofferenza, decide di non togliere quel copricapo e viene esclusa, senza che, peraltro, il suo problema susciti particolare attenzione nella scuola della Costituzione, una scuola che, impoverita e indebolita, rischia di essere democratica solo a parole.

È democratica solo a parole anche quando il ministero somministra i famosi test Invalsi accompagnandoli con domandine sul lavoro del padre, sugli studi della madre, sul numero delle stanze e sul numero dei libri presenti nell’abitazione dell’allievo. Domande le cui risposte saranno utilizzate, molto probabilmente, per avvalorare gli esiti delle prove: prove in cui si sceglie di non tenere conto dei diversi e disomogenei livelli di partenza e i cui risultati non sono utilizzati, come sarebbe invece opportuno, per orientare la destinazione delle risorse pubbliche verso le scuole che operano in contesti difficili.

Difficile è anche il rapporto con le famiglie, che talvolta giungono a sgridare l’insegnante, e non i figli, perché la pagella è brutta, come illustra una vignetta francese riprodotta nel libro. “Il prof fannullone” di fronte a tante e differenti difficoltà viene lasciato quasi solo con se stesso:

«Forse dovremmo solo rassegnarci a indossare la maglietta che circola di questi tempi che dice che gli insegnanti sono dei ninja, multitasking, tutto fare e smettere di aspirare a una scuola che sia giusta davvero. Vorremmo solo che nell’elenco delle cose che facciamo noi lavativi, come qualche ministro si è lasciato sfuggire parlando della categoria, fosse aggiunto lottare, essere picchiati, medicare, psicanalizzare, curare, consolare i feriti, occuparci di sesso, droga e roc… ops alimentazione e spiegare ai ragazzini vittime che non sempre il diritto allo studio è uguale per tutti e che il concetto di inclusione può diventare in alcuni luoghi molto relativo».

A parere di Chiara e Matteo, tutte le riforme che si sono tentate nell’ultimo ventennio, da Berlinguer alla Buona Scuola, non hanno prodotto esiti positivi. Come dar loro torto? Ma, forse, non sarebbe stato inutile, in un libro così attento e documentato, analizzare con maggiore attenzione le caratteristiche dei vari interventi. Autonomia e aziendalizzazione, ad esempio, non sono necessariamente sinonimi.

È, però, indubbio che gli aspetti aziendalistici e privatistici si stiano moltiplicando. Particolarmente significativi tre esempi citati nel libro: l’invadenza delle fondazioni bancarie, che irrompono in orario scolastico per incoraggiare gli studenti a “investire sul loro futuro”; la distribuzione in una catena d’iper-mega-supermercati di bollini che possono tramutarsi in prodotti utili per la scuola; i mercatini di Natale, che, promossi per autofinanziamento scolastico in differenti quartieri della città, possono dare esiti assai differenti: a Torino, dai 610 euro in Barriera di Milano ai 14.700 euro alla Crocetta. Per giungere all’Alternanza Scuola Lavoro, che, nella maggior parte dei casi, sottrae tempo allo studio e alla partecipazione alla vita della scuola, impoverendo l’offerta formativa e costruendo una prospettiva di lavoro precario e bassamente qualificato.

Chiara e Matteo, nel concludere la descrizione del loro viaggio durato diciassette anni, dicono che «ci vanno molta resistenza e coraggio per continuare a fare il proprio amato lavoro di insegnanti con grinta senza cadere nella solitudine, nello sconforto e nella rassegnazione». E forniscono anche alcuni spunti di auto-pratiche esistenziali che meritano di essere letti. Come merita di essere letto tutto il libro, che ci ricorda le radici costituzionali in cui affonda la nostra scuola, ci spiega i molti problemi che ha e ci invita a continuare a sperare in una società più giusta.

Gli autori

Maria Chiara Acciarini

Maria Chiara Acciarini è stata insegnante e preside in una scuola media superiore e ha fatto parte della segreteria della CGIL Scuola di Torino. È stata consigliera comunale di Torino e, poi, deputata e senatrice in rappresentanza dei Democratici di Sinistra, che ha lasciato nel 2007. Ha scritto tra l’altro, con Alba Sasso, il libro “Prima di tutto la scuola” (2006).

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