Forse «Ultima speranza» anziché «Ultimo banco» sarebbe il titolo più giusto per il libro di Giovanni Floris sulla scuola (Ultimo banco, ed. Solferino). Perché, come recita il sottotitolo, all’istruzione l’autore affida il compito di salvare l’Italia.
I motivi e le caratteristiche del «salvataggio» divengono, però, chiari solo nelle ultime pagine. Prima ci si aggira con Floris nei gironi infernali della scuola italiana, abitati, ovviamente, non da peccatori, ma da professori, studenti, genitori. I maestri non sono contemplati, forse perché lo spunto per il viaggio, compiuto a tappe e nel corso di un anno, è stato la presentazione di un altro libro di Floris, Quella notte sono io, dedicato al tema del bullismo. Deve essere stata un’esperienza importante, certo, ma, essendo prevalentemente compiuta nelle scuole secondarie, non ha avuto le caratteristiche necessarie per fornire un quadro organico del nostro sistema di istruzione.
Agli insegnanti Floris rivolge uno sguardo amico, potremmo dire quasi affettuoso, anche perché rievoca, già nella dedica, il lavoro svolto dalla madre, «la Floris». È l’unica docente di cui conosciamo il cognome, perché tutti gli altri sono citati in modo da renderli irriconoscibili. I plausibili motivi di riservatezza concorrono, però, a trasformare queste figure in tanti soggetti isolati, di cui ignoriamo il contesto in cui si muovono e, soprattutto, il rapporto reale, concreto con gli altri insegnanti, gli studenti, i genitori della loro scuola, intesa come luogo in cui una collettività condivide esperienze, speranze e delusioni. Emerge, complessivamente, un affresco abitato da tante persone oneste, spesso stanche, che sembrano piuttosto scettiche sulle possibilità di cambiamento e le cui motivazioni professionali si sono andate progressivamente appannando. Tra le testimonianze raccolte, alcune sembrano frutto di un’esasperazione preoccupante:
«Stiamo allevando una generazione di mostri»; «A volte vorrei andare in periferia o nelle scuole dove ci sono i figli dei camorristi. Almeno lì saprei con chi ho a che fare»; «In nome del popolo somaro, benvenuto!».
Altre, invece, riflettono esperienza e saggezza:
«Lo spirito critico nasce dallo studio, e dalla scuola. Ma dalla scuola che funziona»; «L’esperienza ci ha insegnato che gli stranieri hanno aspettative enormi. Affidano i loro figli all’istituzione scolastica, e considerano un onore far parte della nostra comunità»; «…l’inclusione è l’unica vocazione che la scuola pubblica dovrebbe avere».
Complessivamente le dichiarazioni testimoniano la realtà di una scuola in cui abbondano i cinquantenni, in cui non si fa carriera e si è quasi sempre soli di fronte ad alunni riottosi e genitori aggressivi. Alcuni elementi contribuiscono a consolidare questa impressione, a partire dall’ammontare modesto della retribuzione, che, se confrontata a quella di lavoratori a tempo pieno con lo stesso livello di istruzione, risulta inferiore di una percentuale che va dal 10% al 20%. Anche il rapporto con quella di docenti di altri Paesi europei risulta penalizzante. Floris sottolinea giustamente che il dato più negativo è quello costituito dallo stipendio annuo di fine carriera: nella scuola secondaria in Italia è pari a 39.304 euro, assai inferiore a quello della Spagna, 49.312 euro, e pari a circa il 53% di quello della Germania, 79.538 euro. In Europa, solo i Paesi dell’Est si piazzano peggio di noi. Il capitolo sui professori si chiude con la considerazione che gli insegnanti oggi sono più furbi, più abili a fronteggiare burocrazia, contabilità, relazioni umane.
Le due parti successive del libro sono dedicate a studenti e genitori, anch’essi rappresentati da varie figure anonime che hanno interloquito con l’autore.
Per i ragazzi si riportano, giustamente, i dati che attestano il gap generazionale, tratti dal 14° rapporto sulla comunicazione di Censis e Ucsi. La forbice fra under-30 e over-65 è profonda: l’uso della rete, ad esempio, arriva al 90,5% per i primi e al 38,3% per i secondi. Tuttavia, sottolinea Floris, i dati non ci dicono come siano fatti i ragazzi che oggi frequentano le elementari, le medie o le superiori. E, onestamente, non si può dire che il libro aggiunga molto alla nostra comprensione dell’universo studentesco, che risulterebbe abitato da individui iperprotetti, ansiosi, poco portati alla collaborazione e al lavoro di gruppo. Ma, soprattutto, assai restii ad accettare l’autorità dell’insegnante. In ciò spalleggiati dai protagonisti del terzo girone: i genitori.
Nell’introduzione del capitolo una preside piemontese li indica come «il problema vero», accanto al quale gli studenti, i professori, la burocrazia diventano sopportabili, gestibili, maneggiabili. L’atteggiamento dei genitori è quello di «clienti», che considerano la scuola come «un’impresa che offre un servizio». Si riprendono, nelle parole di un’insegnante, le tradizionali lamentele nei confronti dei genitori entrati nella gestione della scuola attraverso gli organi collegiali. Tuttavia si registrano anche gli indubbi, non positivi, cambiamenti: i genitori sono meno presenti, ma più ossessivi; vanno meno ai consigli di classe, però intervengono e «si alterano se dai loro consigli». In realtà la tendenza è: «La giustizia ce la facciamo da soli, su una piazza virtuale». Siamo giunti, secondo Floris, all’epicentro del terremoto che sta distruggendo il sistema culturale Italia. Al rapporto fra scuola e populismo, alla delegittimazione della classe politica, alla crisi dell’autorità e della responsabilità.
Dopo il viaggio nei tre gironi, nel capitolo conclusivo – Tali e quali – alcune idee essenziali, che sottendono tutto il libro, emergono con chiarezza.
La prima è l’indiscutibile ruolo riconosciuto dall’autore alla scuola: studiare fa bene, studiare aiuta, studiare ti migliora la vita. «Nessuna scuola, sono convinto, nemmeno quella tecnica, deve servire a orientarti verso una “professionalità”»: da questa affermazione discende anche il giudizio sull’alternanza scuola-lavoro, abbastanza negativo, perché l’idea che la scuola debba inserire nel mercato del lavoro è sbagliata. Sono considerazioni pienamente condivisibili, anche se si deve rilevare che Floris, come molti altri giornalisti, non ha ben chiara l’attuale distribuzione degli alunni nella scuola superiore, usa i termini “professionale” e “tecnico” come sinonimi e vede i licei come un blocco omogeneo, pressoché coincidente con il classico. Ma non si può non apprezzare che rivendichi la funzione formativa della scuola e critichi apertamente il presidente dell’Associazione industriali di Cuneo, che nel gennaio 2018, ha invitato i genitori a far studiare i figli da tecnici e da operai specializzati poiché quello e soltanto quello sarà il tipo di lavoro che riusciranno a trovare. E, mentre sottolinea, giustamente, la crescente domanda di personale di alta formazione, afferma: «Penso di avere un’altissima concezione del lavoro e della fatica, ma la buona scuola prepara, non condanna».
La seconda idea è – e, anche qui, come non essere d’accordo – la fiducia nelle competenze diffuse e nella rivalutazione del sapere. Occorre – afferma Floris – restituire preminenza alle persone che conoscono fatti e contesti, ovviamente ciascuno per la propria materia: i docenti.
La terza idea è di natura dichiaratamente politica, perché indica nello studio lo strumento per superare il populismo in cui è caduta la classe dirigente proprio a causa della scarsità di strumenti culturali di cui dispone. E qui ce n’è per tutti: da Paola Taverna che, in romanesco, si vanta di avere studiato la Costituzione nell’imminenza della propria elezione in Parlamento, a Matteo Renzi che presenta i provvedimenti economici dicendo «Oggi è san Prudenzio […] seguiamo la linea Padoan»; da chi schernisce “i professoroni” che fanno previsioni non gradite a chi dice che l’orrore di Pinochet si sviluppò in Venezuela….
«Se sappiamo di non sapere dobbiamo studiare»: Floris chiede che ci si affidi nuovamente ai professori (i maestri: non pervenuti) che devono essere ben pagati, preparati e rispettati. Con una finalità esplicita: tornare «all’essere concreto delle cose, al debito pubblico, alle casse male in arnese, a quella che definiamo realtà». Una realtà dei fatti a cui Floris dà un significato molto preciso, con espressioni che ricordano Mario Monti: «Non portiamo compiti a Bruxelles, ma prima o poi a qualcuno dovremo portarli. I voti arrivano tutti i giorni e non sono nemmeno quelli elettorali, sono quelli del mercato o delle relazioni internazionali».
A questo punto, nel concludere l’esame di un libro che, in ogni caso, vale la pena di leggere, sorgono nella mente alcune domande. I dati, i vincoli economici, l’attuale globalizzazione rappresentano qualcosa che dobbiamo solo imparare a conoscere bene? Il sapere deve soprattutto mettere in grado di adattarsi alla realtà senza pensare di modificarla? Per andare a sederci al primo banco, come Floris ci invita a fare, dobbiamo diventare diligenti e realisti? Spero che per la scuola e la società del nostro Paese ci siano altre prospettive di salvezza.