In questi giorni di isteriche scosse istituzionali, con proclami, veti incrociati, crisi nervose, appelli alla piazza, impuntature di anziani ministri in pectore, piani B, contrapposte massonerie, ma che cosa dicono i mercati, e Draghi che farà, il debito cresce, abitini blu contro felpe verdi, quotidiani schierati come se ancora fossero letti ecc., mi è venuta più volte in mente una lezione di Mario Apollonio, mio antico professore di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università. Diceva Apollonio che l’Italia è negata alla tragedia, che nel nostro teatro (e quindi anche nel nostro paese) prevalgono o l’evasione nel gesto comico (dalle atellane alla Commedia dell’arte a Petrolini al cinema di Totò e compagnia) oppure l’evasione sentimentale della grande opera lirica: dal lazzo al melodramma; molto più raramente emerge il conflitto tragico, che esige la serietà e la responsabilità della parola da noi espresse piuttosto nella poesia, da Dante a Leopardi ai sommi del Novecento.
Il che non esclude violenze, eccidi, sacrifici anche eroici, ma questi ultimi restano isolati, non improntano di sé il costume nazionale se non per trasformarsi in retorica celebrativa.
Questo per dire che il passaggio dalla seconda alla terza repubblica è avvenuto tra grandi polemiche mediatiche e anche locali (in un borgo dell’Italia Centrale ho visto di persona crocchi di uomini, parroco compreso ma nessun giovane, seduti su una scala a discutere animatamente di Europa, debito, IVA, tasse, lavoro nero…), ma senza particolari approfondimenti mediatici, salvo rarissime eccezioni come “il manifesto”, che ci aiutassero a capire che cosa stava succedendo: ancora una volta scoppi emotivi con rimpallo di responsabilità o profili più caricaturali che satirici dei vari protagonisti. Non che i vincitori delle elezioni non prestino il fianco a critiche da giornalino vernacolare, così come i loro sciagurati predecessori, però un piccolo sforzo di analisi in più si poteva anche fare. Magari almeno un inquadramento della crisi italiana in un contesto più ampio, tra scomparsa della sinistra, generale collasso democratico e globalizzazione.
Non presumo certo di farlo io, questo inquadramento, non ne avrei la competenza. Mi limito a esprimere alcune considerazioni di buon senso.
Il debito, ad esempio. È chiaro che un debito mondiale di 223.000 miliardi di dollari, quasi 4 volte di più della ricchezza prodotta (misurata sul Pil) non sarà mai estinguibile. Quello che vogliono i creditori non è il rimborso, ma il pagamento degli interessi e la subordinazione dei debitori: la Grecia ne è un esempio clamoroso. Ma anche le reazioni europee alle elezioni italiane avevano l’intento di farci fischiare le orecchie.
In Italia poi dal 1990 a oggi quelli che pagano le tasse hanno dato allo Stato 750 miliardi in più di quello che lo Stato ha restituito in servizi.
E i Comuni sono stati ridotti alla fame, ma la loro quota di debito nazionale è dell’1,8%. (Traggo tutto ciò dalle documentate analisi di Marco Bersani su “il manifesto” del 1 giugno 2018 e sul sito Bene comune, cui rimando per un approfondimento),
Allora perché gridolini da vispe terese o prediche da quaresimalisti in pulpito se poi il famoso o, a seconda dei momenti e delle convenienze, famigerato popolo si aggrappa a quello che trova su piazza?
E a proposito di popolo. C’è ormai una vasta bibliografia in materia, a partire dal saggio di Revelli: i più recenti sono Mark Lilla, L’identità non è di sinistra, Marsilio, e il più interessante e controverso Jean-Claude Michéa, Il nostro comune nemico, Neri Pozza, editore che segue intelligentemente il filone della crisi del moderno. Entrambi polemizzano con la “sinistra”, da Michéa identificata addirittura come la traditrice delle ragioni del socialismo autentico per aver sposato il liberalismo progressista borghese fin dai tempi dell’affare Dreyfus e di Jaurès. E da qui poi estende il discorso al Sessantotto, giudicato come causa remota del ripiegamento narcisistico e dell’accentuazione dei diritti rispetto ai bisogni. L’analisi di Michéa è molto legata all’esperienza francese, così come quella, in parte analoga, di Lilla è tributaria delle vicende americane: l’Italia ha avuto un percorso diverso, terrorismo incluso.
Però è vero che la gauche caviar, la sinistra intellettuale e da salotto, così come quella, becera e fatua, dei selfie e del pop corn, si è allontanata dai bisogni reali dei cittadini (del popolo) sin dai tempi della Tatcher e del suo famoso There is no such thing as society. There are individual men and women. Poi con la deriva blairiana, ha abbandonato progressivamente ogni forma di lotta contro la disuguaglianza economica, orientandosi piuttosto sull’acquisizione dei diritti individuali (peraltro poco costosi). Ma, come dice Lilla, «A che cosa serve avere dei consigli di amministrazione pieni di diversità etnica e sessuale, se poi scelgono di eliminare posti di lavoro e delocalizzano all’estero?».
D’altra parte come organizzare una resistenza operaia se gli operai, da noi, non ci sono quasi più o sono uberizzati?
Quali categorie abbiamo per fronteggiare un mondo in cui WhatsApp, con 52 dipendenti in tutto (la Sony ne ha 170.000) ma 450 milioni di utenti è stata acquistata da Mark Zuckerberg per 14 miliardi di euro?
Un mondo in cui finanza, anonimi consigli di amministrazione e agenzie di rating globali in luoghi remoti da noi prendono decisioni sulle nostre vite?
Eppure se non torniamo al solidarismo, al senso di reciprocità, al cooperativismo e all’anticapitalismo, quello vero, quello del socialismo dell’anarchismo del populismo (ebbene, sì) delle origini non riusciremo mai a risollevare la testa. Come ricominciare, non lo so. Mettere sabbia negli ingranaggi, si diceva un tempo; ma ormai gli ingranaggi sono fuori della nostra portata.
Avere pazienza, fare rete tra iniziative che si muovono in basso, dare la precedenza ai doveri, che sono sociali, sui diritti, che sono individuali (e magari anche rileggere in proposito Simone Weil), soprattutto fare controinformazione, usare la rete senza esserne succubi, far circolare idee e culture e libri che siano alternativi al sistema… Riscoprire l’umano. Ripercorrere i nodi della storia. Disubbidire anche. Non so, mi sento triste arrabbiato e impotente.
Condivido molto di questo articolo, compresa arrabbiatura tristezza e senso di impotenza. Tuttavia se da un lato è vero che molto probabilmente il potere, inteso prevalentemente e sostanzialmente come potere economico e ricchezza, non è mai stato così concentrato, forte e universale e allo stesso tempo così poco attaccato e messo in discussione seriamente è anche vero che oggi come mai prima nella storia umana esisterebbe una teorica potenzialità di disintegrarlo senza devastanti spargimenti di sangue. Cerco di spiegare perchè anche se in poche riche non sarà facile. Nonostante la grande virtualizzazione contemporanea alla fine non viviamo in uno mondo reale: esistono gli eserciti, le polizie, le leggi economiche, gli stati, insfrastrutture civili a vari livelli ma tutto questo finisce per essere eterodiretto dal potere economico-finanziaro. Questa grande leva che in fondo muove quasi tutto è probabilmente fortissima proprio perchè una leva molto “lunga” e molto “mediata” da tantissimi elementi che ci stanno in mezzo. In un certo senso si è consolidata una gerarchia che semplificando vede la finanza comandare sulla economia che a sua volta detta alla politica la quale infine impone ai cittadini. L’esatto contrario di come dovrebbe essere anche se ci si mantenesse nella logica capitalistica e di libero mercato che ha contribuito al rafforzarsi di questa tendenza. Il grande collante che rende possibile tutto questo è il denaro. Non mi riferisco al contante ma al valore convenzionale che diamo ai beni. Adesso è chiaro che non è pensabile attaccare il concetto di denaro in quanto tale che oltretutto è consolidato ed ha rappresentato anche progresso in migliaia di anni di storia però è evidente que la stragrande potenza concetrata in poche mani è qualcosa che è molto solido solo in virtù di convenzioni molto solide perchè in realtà i byte dei conti in banca di solido hanno ben poco fisicamente parlando. Adesso come mai l’umanità che in modo più o meno disorganizzato con certo la grande influenza dell’ informazione condizionata da quelli con gli “zeri” in banca ha comunque la possibilità unica nella storia di parlarsi da un capo all’altro del pianeta. Internet (nato, per ironia della sorte, dai militari) sta contribendo seppur con tutte le contraddizioni a formare una certa maggiore auto-coscenza dell’umanità. Questo vuol dire che la potenzialità di riconscersi in essere umani diversi da uomo competitivo ed individualista imposto dal modello economico ed in preda all’ammirazione o all’invidia o alla paura di chi è ricco e potente, potrebbe effettivamente concretizzarsi. Le conseguenze a catena si possono sognare o immaginare ma il muro che ci separa da un mondo nuovo e migliore potrebbe essere meno spesso e duro di quello che adesso immaginiamo. Credo che dobbiamo essere tristi ed arrabbiati ma credo anche che dovremmo diffondere anche una grande speranza per il futuro.
chiedo scusa per parecchi errori e refusi (ho postato senza rileggere) segnalo solo uno che cambia senso alla frase dove volevo scivere “alla fine noi viviamo in uno mondo reale” e non alla fine non viviamo in uno mondo reale