Archiviato anche mediaticamente il delirio collettivo seguito alla morte di Silvio Berlusconi, proviamo a riflettere a freddo su come quel Requiem si inquadri nell’autobiografia di questa infelice nazione. Dicendoci, preliminarmente, che è comunque difficile calcolare il danno d’immagine prodotto da quei tre giorni di follia. Anzi, che forse davvero è incalcolabile la devastazione della nostra immagine internazionale e del misero brandello di auto-stima che ci rimaneva, come effetto di quei “funerali di Stato” che sono sembrati tanto un “funerale dello Stato”. E soprattutto di quel “lutto nazionale” protratto oltre ogni limite, come a nessun altro mai (gli eruditi della storia dicono che solo Cavour…, ma allora non c’era neanche l’Italia tutta unita), che a molti (si spera) è sembrato il duro contrappasso imposto dal vizio alla virtù costretta ad assisterne all’elogio. Lutto mai silenzioso, perché accompagnato, come un empio coro greco, dal “parossismo celebrativo” (la felice espressione è di Barbara Spinelli) che si è impadronito, come un virus, dell’intero mondo delle comunicazioni e delle istituzioni, impastato di iperboli apologetiche e di amnesie abissali, di servili encomi (del caro estinto) e di codardi oltraggi (di chi aveva tentato di contenerne la straripante vis predatoria), all’insegna di una sorta di celebrazione dei “migliori anni della nostra vita” che occulta, e rovescia, la realtà del fangoso piano inclinato sul quale l’Italia ha continuato a scivolare verso il basso nel trentennio dominato dal “con-celebrato”. Davvero, in quei tre giorni di passione triste, abbiamo assistito, attoniti, a una morte (“morte della Patria”, vogliamo dire?) senza annuncio di resurrezione. Morte per resa, per estenuazione, per autoconsunzione di ogni rispetto di sé e di quel minimo di dignità da uomini liberi che permette a una comunità di stare decorosamente in campo.
Lo spettacolo allestito in Piazza del Duomo, alle tre del pomeriggio del 14 giugno, però, beh quello non può essere accantonato con un cenno di fastidio, come tutto subito verrebbe da fare. Quello va visto e rivisto (ci sono videoteche intere di materiale disponibile, la lunga cronaca di Propaganda live la più interessante). Va pensato e ripensato, tanto più ora, “a freddo”, perché lì, in quel rettangolo di sagrato nel cuore di Milano, come in una grande sfera di cristallo, è stato possibile vedere la sintesi conturbante di ciò che siamo stati e che, tragicamente, siamo diventati e, ahinoi, diventeremo. Un lampo, giusto un breve flash, d’una verità agghiacciante come le visioni degli antichi provenienti dall’Ade. Il prodotto di sintesi di una miriade di piccoli particolari, che d’improvviso precipitano in un punto solo a disegnare e raccontare ciò che mai avremmo voluto vedere e ascoltare. De nobis fabula narratur. Un’autopsia a cielo aperto, diffusa urbi et orbi, a reti unificate, sul corpo estenuato del berlusconismo, e in fondo su quello altrettanto logoro del Paese che Berlusconi aveva plasmato, questo abbiamo avuto occasione di guardare in quell’oretta o poco più del rito: l’immagine stratigrafata ed esumata di quanto in un trentennio il “Celebrato” era andato sedimentando nella propria esistenza e in quella della nazione, trovatesi magicamente a intrecciarsi lì per uno di quei ghiribizzi della Storia che, quando meno te lo aspetti, e forse seguendo un imperscrutabile disegno pedagogico, fonde il corpo mortale dell’individuo e quello collettivo del Paese per rivelare la caducità di entrambi.
C’è uno con un grande cappello da cow boy che cammina spedito qua e là…, c’è il gruppone minaccioso degli ultras della curva sud tatuati braccia e polpacci, sguardi che a incrociarli di sera…, che cantano “Un solo un presidente, UN PRESIDENTE!!!” e hanno appena deposto ad Arcore uno striscione con scritto “la Figa & il Milan” (scritto proprio così, con la “e commerciale”)… c’è un’ anziana che ha allestito un altarino con l’effige della madonna… ci sono le Olgettine in divisa nera… c’è un cerchio di scamiciati che saltellano scandendo “Chi non salta comunista è” per le telecamere golose di Mediaset e la commozione della cronista… ci sono i fans di Forza Italia avvolti nelle bandiere tricolori e quelli della squadra del “capo” con le maglie rossonere, le più gettonate quella di Baresi, Maldini, Shevchenko, Ibrahimovic… tutti a spararsi selfie, ansiosi d’immortalare il proprio Io personale nel tableau vivent di quella giornata all’insegna dell’Uomo che ha “fatto la storia” illudendosi, davvero, di poter per questa via “entrare nella storia”.
Niente, ma proprio niente, che richiami l’atmosfera austera, di sia pur ipocrita compostezza e misura, che ci si aspetterebbe da una cerimonia funebre. Più che un funerale, un carnevale (un carnevale macabro, come quelli messicani) verrebbe da dire scusandoci per l’impertinenza. Uno spettacolo, soprattutto televisivo (universalizzato dal medium berlusconiano per eccellenza): un tipico spettacolo pop, ibrido e scomposto, popolarescamente volgare e iconicamente ammiccante, misto di voyeurismo ed esibizionismo come appunto impone il format Mediaset generalizzatosi, in cui gli animal insticts maturati in basso e l’autoreferenzialità altezzosa dell’élite del potere, nella realtà distanti tra loro anni luce, per un breve momento s’incontrano e compenetrano in un unico corpo, esattamente come aveva praticato in vita il Presidente operaio, contadino, imprenditore, allenatore, cantante intorno alle cui spoglie quel circo Barnum si riuniva.
Diciamocelo. Non era “popolo”, quello, ma una caricatura del popolo. Il prodotto finale di un processo di scomposizione e decomposizione durato decenni e giunto, lì, proprio nel cuore di quella che un tempo era stata la modernissima “capitale morale” del Paese, nel tempio del capitalismo italiano, alla propria terminale verità. Era, quella filtrata attraverso l’occhio impietoso delle telecamere, l’immagine, inguardabile, di un popolo sfarinato, ridotto a variopinta folla imprigionata nel ricordo della grandezza che fu, per una classe dirigente in disfacimento, imbolsita, ingrigita, attualmente inattuale. Il simbolo, incarnato, di un Paese al capolinea. D’altra parte bastava ruotare lo sguardo di appena un angolo acuto, meno di 90 gradi, dal centro della piazza alla corsia transennata sulla destra, lunga passerella senza tappeto rosso su cui erano costretti a sfilare i VIP ammessi all’interno della Cattedrale, per avere, degradato come quello di Dorian Gray, il ritratto di ciò a cui si è ridotto in Italia il potere (“il volto, un tempo giovane e perfetto, è carico di rughe, di ghigni, il corpo è quello di un vecchio perché è l’anima di Dorian che, con la sua vita, è arrivata a marcire”, ne scrive Oscar Wilde).
Non so a voi, ma a me la vista di quella sfilata vagamente surreale di revenant ha provocato una sorta di alterazione temporanea dei sensi e l’impressione allucinata che in quel giorno del “destino”, tutte le protesi che avevano innervato il corpo del defunto sostenendolo oltre i suoi limiti naturali – i chili di fard, i capelli trapiantati, il botulino a gogo, i tacchi rialzati, la pompetta… – si fossero messe in cammino per impersonarsi in questo o in quella protagonista del rito degli addii, il cerone spesso un dito sui volti segnati di ex belle donne sfiorite, i tacchi 12 cm sotto i talloni di ex soubrettes finite fuori scena, le labbra a canotto di presentatrici un tempo à la page, la chioma canuta e scarmigliata di un Verdini reso muto dalla libertà provvisoria, il volto irriconoscibile per l’iper-pigmentazione dell’età di un Emilio Fede delirante e non pervenuto, il patetico remember del suo ormai abbandonato Forum a favore di un gruppetto di vecchiette da parte di una Rita Dalla Chiesa che senza mostrare un grammo di disagio sta a pochi metri da un Dell’Utri restituito alla sua gente dopo un po’ di anni di condanna per Mafia (la piovra che ha assassinato suo padre). E poi un Jerri Scotti deformato dall’obesità, un Lele Mora all’opposto trasformato dal dimagrimento, Jo Squillo e Iva Zanicchi salvate solo dagli enormi occhiali neri d’ordinanza, mescolati random a presidenti e allenatori di squadre calcistiche (Sacchi, Allegri, De Laurentis, Urbano Cairo in doppia veste simil-berlusconi in sedicesimo, metà patron di calcio metà padrone di mezzi di comunicazione), a banchieri dalle guance pesanti, a immobiliaristi dalla speculazione facile. Uomini e donne dello spettacolo, della politica, della finanza, quello che il tycoon di Arcore aveva mixato sapientemente nel grande shacker fornitogli da “Sua Maestà il Denaro” facendone la propria corte. Il “mondo di Silvio”, che a lui doveva tutto e a cui lui doveva molto. Ma che ora appariva irrimediabilmente postumo.
La sensazione che alla fine rimane è quella del vuoto. Di un pauroso vuoto non tanto “politico” – quello purtroppo è riempito dalla peggior classe di governo che si potesse immaginare, autoritaria, suprematista, fascistoide. Ma un vuoto sociale, strutturale, effetto dello sgretolamento sistemico di tutte le aggregazioni fondamentali delle società moderne, classi, ceti, soggetti collettivi… In fondo all’ “effondrement de la classe ouvriere” come lo chiamano i francesi, ci eravamo abituati, per lo meno dal tempo di quel fondamentale libro di svolta che è Adieu au proletariat di André Gorz (del 1981!). E se l’avessimo rimosso ce lo ricorderebbe questa stessa piazza se facessimo il doloroso esperimento di sovrapporre a quelle odierne le immagini di un altro funerale, anch’esso qui, su questo stesso sagrato, cinquantaquattro anni fa, il 15 dicembre del ’69, le duecentomila tute blu che salvarono la nostra democrazia presidiando le esequie delle vittime di Piazza Fontana, gli operai delle grandi fabbriche milanesi, silenziosi, austeri, compatti come un muro impenetrabile, fortissimi nel loro orgoglio di produttori… Ecco, se la sovrapponessimo questa immagine in bianco e nero di un’altra era a quella del volgo multicolore ma spento, subalterno e cortigiano, che abbiamo visto ora, avremmo la misura di quanto si è perduto.

A questo lungo addio rispetto a quello che è stato ex origine l’insediamento sociale naturale della sinistra, dicevo, eravamo da tempo rassegnati, ma a quello dell’antagonista speculare di quel soggetto sociale, a un parallelo adieu à la bourgeosie, beh questo era ed è stato fino ad ora meno evidente. Comunque assai meno dichiarato. E invece è proprio quanto è certificato plasticamente dalla giornata dell’inumazione di quello che passo passo, per successive sottrazioni, nel corso dell’ultimo trentennio è diventato l’unico e ultimo rappresentante di quella classe non più classe. In quel parterre du Roy esposto pienamente all’occhio del mondo, nemmeno il fantasma della borghesia aleggiava più. Per lo meno della Borghesia così come è stata rappresentata e teorizzata nella lunga era in cui è stata classe dominante per antonomasia, da Marx a Weber, da Sombart a Schumpeter, nel bene o nel male, con toni apologetici o deprecanti, ma comunque sempre anche aggregato demiurgico e non semplicemente branco da preda. La cosa è tanto più significativa perché quest’evidenza dell’assenza si è manifestata proprio lì, potremmo dire nel tempio borghese per eccellenza, nella Milano che fu dei Pirelli, dei Falk, dei Moratti, dei Cuccia, dei Garzanti e dei Feltrinelli – non certo stinchi di santo ma nemmeno occasionali figure da baraccone -, sostituiti ora da questa pletora di affaristi parassitari, pieni di soldi e poveri di progetto, navigatori a vista nel mare della speculazione finanziaria e dell’occasionalismo predatorio delle risorse pubbliche di cui il sistema sanitario meneghino costituisce il principale campo di mietitura. Una “borghesia estrattiva”, non più produttiva, specializzata appunto nell’estrarre la ricchezza comune per privatizzarla e reinvestirla nei circuiti immateriali della finanza globalizzata.
Una ventina d’anni fa, nel 2004 per la precisione, tre figure autorevoli della nostra auto-riflessione socio-politica – Aldo Bonomi, Massimo Cacciari e Giuseppe De Rita –, in un volume per l’editore Einaudi -, si erano poste, appunto, la domanda Che fine ha fatto la borghesia? Ora, seguendo le ormai labili tracce di quelle originarie intuizioni possiamo dire che il grande passaggio dal “capitalismo industriale” (fordista) novecentesco al “capitalismo personale” (così lo chiama Bonomi: quello del post-fordismo, dei distretti e delle reti corte, del capitale relazionale) ha svolto compiutamente la propria pars destruens (molecolarizzando imprese e imprenditori, sottodimensionando unità produttive e capitali, individualizzando e periferizzando). Ma ha mancato clamorosamente l’ipotetica pars construens: quella che avrebbe dovuto veder aggregarsi le geocomunità di territorio dedite all’autopromozione come habitat di una neoborghesia emergente laboriosa e fibrillante nelle reti corte casa-capannone, destinata a sostituire fuori dalle mura dell’impresa il ruolo degli antichi capitani d’industria nell’espletare le “funzioni strategiche” dello sviluppo. Quel parto è abortito, liberando sul terreno sciami di neoborghesi (o, forse meglio, post-borghesi) preda dei propri geni egoisti, refrattari a ogni mediazione pubblica e a ogni responsabilità sociale, occasionalisti per fragilità, desiderosi di protezione ma ostili a qualsivoglia contribuzione. In qualche modo, potremmo dire, il sottoprodotto di quel processo di cetomedizzazione profetizzato da De Rita, che se da una parte ha risucchiato una parte di antico proletariato nella fascia intermedia, assimilandolo a una sorta di lumpen-borghesia, dall’altro ha fatto smottare verso il basso, per erosione, una buona parte del precedente ceto medio-alto borghese, diluendone virtù e ampliandone vizi. Il residuo solido di tutto ciò, sulle macerie delle antiche company town, è quel tessuto logoro fatto di postborghesi eterogenei, broker, manager, businessman, procacciatori d’affari: “tipi anonimi, senza biografia, senza territorio”, dirà Cacciari, che “non stanno da nessuna parte”… E che si sono materializzati, appunto, provvisoriamente, nel luogo dell’addio all’Uomo che aveva incarnato in sé il lungo processo della loro genesi.
Detto questo resta un grande PERCHE’? Come è potuto accedere che l’intero Paese sia caduto preda di questa narrazione bugiarda e reticente, che per giorni e giorni ha imperversato senza trovare resistenze, se non poche, eroiche dissociazioni. Come hanno potuto il Parlamento, la Presidenza della Repubblica, i principali organi di stampa, i cosiddetti opinion leaders, persino un buon numero di capi sindacali offendere se stessi e la nazione tutta, con questa successione di atti di auto-asservimento e di esibizione trash, partecipando a un rito di auto-cancellazione della memoria che non ha precedenti? Come ha potuto l’Italia, dopo essersi data una prima volta, in parte almeno controvoglia e resistente, al Berlusconi ascendente, darsi una seconda, e definitiva volta, quasi unanime e asservita, al Berlusconi finito?
Si dirà che quel caso di possessione è stato un fenomeno prevalentemente mediatico, una sorta di trompe l’oeil televisivo, ed essendo stato Berlusconi indiscutibilmente mister media, e dato che il medium è il messaggio, era inevitabile che il “suo” mezzo ne riflettesse ingigantita e acritica l’immagine. Ed è vero. Ma non è solo questo. I sette giorni (sette!) di chiusura del Parlamento non sono fenomeno mediatico, sono un fatto istituzionale. La presenza (non richiesta da nessun protocollo) del Presidente della Repubblica di fianco al feretro – un Mattarella freezzato, irrigidito come una statua di legno, autoridotto a oggetto lì trasportato – non è accidente comunicativo, è impegnativa scelta identitaria. Così come l’omaggio trasversale di (quasi) tutto l’arco politico. Qualcosa di più profondo, della sola apparenza mediatica, per sua natura fatua, deve essere successo. E forse, come per la Lettera rubata di Poe, la verità è lì, bella in mostra, grande come una casa, solo a volerla vedere. E consiste nel fatto che Silvio Berlusconi non è stato solo un imprenditore post-fordista, un finanz-capitalista e un convinto neo-liberista, ma ha rappresentato la forma con cui il neo-liberismo è entrato e si è affermato in Italia. E’ stato, potremmo dire, “il neo-liberismo” italiano, traduzione radicale ed estrema (oltre che, come si addice all’Italietta, in buona misura grottesca) del paradigma che andava colonizzando il mondo (occidentale). Di quel paradigma ha incarnato la mercificazione totale dell’esistenza (tutto ha un prezzo, anche un deputato o un senatore, anche il corpo di una minorenne e la dignità di un organo costituzionale – ricordate il voto si Ruby nipote di Mubarak? -, tutto può essere reso disponibile, basta poterselo pagare); e la mercatizzazione integrale della società (come per la Chiesa un tempo, tutto dentro il mercato – anche l’anima delle persone, anche gli organi biologici – niente fuori dal mercato, altro che beni comuni e aree protette)… Di quello stadio ultimo del capitalismo, è stato insieme il propagandista e il protagonista. Ad esso ha imprestato corpo e spirito, rendendolo, in qualche misura, la forma del noi che ci mancava. Il neo-liberismo, dovremmo averlo imparato in quest’ultimo trentennio, è insieme brutale e seduttivo, esattamente come brutale e seduttivo era il “Cavaliere” che l’ha interpretato. E’ insaziabile e smodato, apparentemente generoso nelle aspettative che dissemina e scandalosamente avido nelle pretese che impone senza badare ai mezzi impiegati, come il “Papi” delle “cene eleganti” con annesso boudoir. Corrosivo e corruttivo, contamina del proprio spirito possessivo tutto ciò che tocca facendo del successo l’unico metro per misurare ragione e torto. In questo senso il berlusconismo ne ha costituito l’anima più autentica. E dato che a quel paradigma praticamente tutti, trasversalmente, da destra ma anche da sinistra, si sono dati, praticamente senza pudore, determinati a ruere in servitium di quello che consideravano lo “spirito del tempo”, come stupirsi se oggi, nel momento della celebrazione post-mortem, rinnovano quel pactum subiectionis incapaci di distanziarsene, anche dopo la caduta di ogni velo?
Ora però che quella macabra “festa del riconoscimento” è stata celebrata dobbiamo dircelo. Con le sue esequie solenni Berlusconi è stato consegnato definitivamente al passato. Di quella lunga marcia contro le istituzioni del credo neoliberista la sua figura ha incarnato la fase “crescente”, espansiva e quasi naturalmente egemonica, ottimistica e promettente per tutti. La primavera, potremmo dire, con i suoi umori vitalistici ed edonistici, i suoi venti molli e i suoi ormoni pulsanti a cui il Berlusconi ridens ha prestato la sua faccia e la sua opera. Ora, entrati in un autunno avanzato, e nel passaggio a un inverno che si annuncia rigido quanti altri mai, il testimone passa ad altri, più cupi, e oscuri protagonisti che non hanno nessun “domani che canta”, nessun “sole in tasca”, nessun tappeto volante da piazzare, tutt’al più bastoni nodosi e qualche avvizzita carota ideologica. Finito il tempo dei gattopardi, ora ce la dobbiamo vedere con lupi, e sciacalli.
Grazie professor Revelli per quest’altra dettagliatissima analisi. Anche questa sembra ispirarsi all’opera di Bosch. Sì, al solo fine di dare spazio alle esigenze espansive del suo Io, trent’anni fa Berlusconi aveva aperto il recinto ai lupi facendoli coesistere con le forze scissioniste del Paese. In tal modo, con il suo neo-liberismo personalistico, egli,
ben lungi da ogni modernizzazione, ha creato le condizioni per una regressione a una società medievale. L’illusione dell’imborghesimento del proletariato ha determinato ad un tempo l’estinzione sia del proletariato sia della stessa borghesia, prospettando in tal modo una società deborghesizzata, ossia senza quella classe media che nell’età moderna, nel bene e nel male, aveva provocato le rivoluzioni. Quella cerimonia funebre infatti non è stata altro che una rappresentazione autocelebrativa di uno Stato signorile formato da due sole classi, quella dei potenti signori e quella dei sottomessi dalla coscienza intorpidita. Si ripropone così la dialettica Signoria-Servirtù. Ma per intanto où est le Tiers Etat?
Finalmente una voce libera che irrompe sui “balletti”, più o meno di tutti, intorno a Berlusconi e alla sua celebrazione pubblica post mortem.
Finalmente un pensiero coerente scevro da ipocrite convenienze, capace di dire pane al pane in un modo che non lascia spiragli di aggiustamenti di comodo o di pavidità.
Condivido ogni parola di quanto scritto da Marco Revelli, che ringrazio molto per il suo insostituibile e prezioso impegno civile.