È un istante, un semplice frame in un video. Conviene guardarlo e ricordarsi con attenzione anche la data: il 27 marzo. Da un lato c’è un intellettuale pubblico come Tomaso Montanari (a cui – dentro la comunità che anima questo sito – non va la nostra solidarietà, va qualcosa di più profondo: la nostra amicizia collettiva), dall’altro lato c’è un’oscura esponente del partito di maggioranza relativa, tal Chiara Colosimo. Solo adesso il suo nome può dirci qualcosa: ha preso il posto di presidente della Commissione parlamentare anti-mafia (che è stato per esempio di Rosy Bindi), nonostante le sue frequentazioni con esponenti dell’eversione di destra. Ma il 27 marzo pochi sapevano chi fosse, a parte portare con sé la dote dell’amicizia stretta con la Meloni. A un certo punto la suddetta esplode e, con una naturalezza che allora poteva sembrare più una battuta che una reale minaccia, pronuncia queste testuali parole: «Stia pur sicuro che da noi non avrà mai diritto di parola». Allora: due mesi fa. Che cos’è cambiato in questo breve tempo? Non solo che nei confronti di Tomaso e di quelle altre (pochissime) voci di dissenso che ancora hanno la possibilità di parlare è partito un serrato tiro al bersaglio da parte di tutti i partiti e i giornali della maggioranza (a cominciare dal governista par excellence, Matteo Renzi con i suoi “bravi”). Ma anche che quella battuta sul diritto di parola è ormai un programma politico: la regola è diventata prendersi tutto, serrare gli spazi dell’opinione pubblica per trasformarla in propaganda di regime, dileggiando ogni regola di pluralismo democratico e ogni pudore.
Naturalmente c’è un rapporto psicanalitico tra questa rimozione del pudore come sentimento naturalmente democratico e l’ossessione paranoica nei confronti del vuoto, per cui non si può né si deve lasciare nessuno spazio che non sia occupato, controllato, indirizzato, ideologizzato. Una democrazia che ha così paura del vuoto è una democrazia che ha paura di se stessa. Non per caso un filosofo come Claude Lefort la definiva come un “luogo vuoto”. Il carattere fondamentale della democrazia sarebbe infatti un’interdizione, un divorzio tra il potere e il possesso. In un regime democratico il potere è per sua stessa definizione qualcosa che deve restare contendibile, non deve essere occupato da qualcuno se non a condizione che possa sempre essere occupato da qualche altro. Più semplicemente, il potere è affidato al suo vuoto: dove il vuoto scompare, la democrazia languisce. Però non è di questo che voglio occuparmi. Vorrei sottolineare piuttosto una continuità storica che mi pare sempre omessa e di cui, invece, dovremmo far memoria.
Questa violenza del prendiamoci tutto trasforma la dialettica delle maggioranze che si susseguono in un esercizio di guerra molto più che un esercizio di parola. Certo, viene facile in questo caso segnalare che questa idea secondo cui la minoranza sia qualcosa da negare manifesti una tentazione fascista. Ma faremmo bene anche a non dimenticarci del “secondo ventennio”, quello del berlusconismo. Era il 1996 (se lo ricordano ormai solo gli anziani e, ricordandolo, si rendono purtroppo conto di essere tali). In un’intervista al Messaggero Cesare Previti diede un’idea di quale fossero le intenzioni in caso di vittoria elettorale: «Non faremo prigionieri». Questa frase ha segnato l’etica della democrazia nei decenni successivi e, non scordiamolo, ha contagiato anche l’opposizione. Il lessico della guerra per spiegare ciò che sarebbe stata da allora in poi la politica. Non faremo prigionieri e ci prenderemo tutto. Con la complicità del centro sinistra che in questi decenni ha colpevolmente pensato che si potesse lasciare che le scuole venissero conquistate dalle imprese, tanto a far argine culturale alla guerra annunciata dalla destra sarebbe bastata la forza imponente del veltronismo: un pensiero senza pensiero, fatto di luoghi comuni e amicizie ristrette. L’unico merito del veltronismo è esser riuscito ad anticipare la vacuità culturale dei social in un’epoca in cui i social non esistevano. In fin dei conti, non c’è stato bisogno di fare troppi prigionieri: i nemici hanno preferito consegnarsi da soli.
C’è una continuità storica tra Previti e Colosimo (non solo per le loro “amicizie complicate”). Quel che ha fatto la destra in questi mesi è ciò che avrebbe voluto fare Previti allora, se solo avesse vinto quelle elezioni. Ora questa resa incondizionata viene semplicemente appalesata. Senza più regolazione, senza più limite anche simbolico. Io capisco benissimo il motivo per cui va tolto il diritto di parola a Montanari, ma chi può seriamente sostenere che anche Amadeus rappresenti una minaccia per l’occupazione militare della cultura da parte della destra? Togliere Amadeus è uccidere quel nemico che si è già consegnato. Perché questo accanimento? Avanzo due ipotesi, che – come vedrete – sono delle eredità del berlusconismo molto più che del fascismo.
La prima è che in Italia anche la cultura è uno spazio sottoposto all’unico filtro tramite cui si opera la selezione della classe dirigente: il familismo amorale. C’è un solo merito, in questo paese, ed è essere amici intimi dei potenti. Guardateli, i nani e le ballerine che stanno prendendosi tutto. Mentre addestrano i nostri figli alla retorica del merito fin dai sei anni (ho letto ieri una dichiarazione di Valditara che cito testualmente: «Dobbiamo insegnare già dalle scuole elementari la centralità e la bellezza del lavoro». Non so voi, ma io guardo mio figlio che si gode il primo mare e rabbrividisco temendo che possa essere l’ultimo), non si fanno vergogna a riprodursi solo per fedeltà intima. Si sono visti a una festa, hanno dimostrato obbedienza e tanto basta. Non serve altro, anzi tutto l’altro è qualcosa da evitare come la peste. Il nostro ineffabile Ministro della cultura ha pronunciato in questi giorni queste parole: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa».raticamente un’autodenuncia: io non c’entro niente con quello che sono chiamato a fare. Questo familismo è qualcosa di meno romantico della categoria sociologica di Banfield. Per comprenderlo appieno dobbiamo tornare a Previti e alla logica della guerra applicata alla politica. È nella guerra che i legami si consolidano sul cameratismo accompagnato da una pianificata censura dell’autonomia del pensiero. Il soldato è colui che deve essere disposto a tutto senza pensare. Eccola la classe dirigente a cui la destra sta consegnando questo paese.
La seconda eredità è proprio quella tentazione del prendersi “tutto” (la faccia cattiva di Berlusconi: il “caimano”). La riduzione della democrazia a questa presa di tutto che avviene ogni cinque anni. Un prendersi tutto che attizza persino la brace del presidenzialismo, a ben guardare. Per fare solo un esempio, chi frequenta l’Università sa che ormai la tentazione di non fare prigionieri è una regola e che il conflitto d’interessi è diventato qualcosa di cui andare fieri, non da nascondere. In fondo non c’è nulla di più glorioso, in un’epoca di narcisisti, che far risplendere se stessi tramite l’esibizione del proprio conflitto d’interessi. Quel tizio ha vinto perché l’ho fatto vincere io: lui ha vinto, ma il potente sono io.
Non deve restare più un angolo, un residuo, un vuoto. Tutto deve essere pieno e accordarsi con chi ostenta il potere come roba propria. Niklas Luhmann, non proprio un poeta, a un certo punto scrive queste parole: «Tutto potrebbe essere diverso, e non c’è quasi nulla che io possa cambiare». Temo di sentirmi precisamente in questo modo. So che non basta qualche cosa ma tutto andrebbe ormai cambiato, e sento anche che se non c’è più spazio neanche per l’inconsistenza antagonistica di Fabio Fazio, figurarsi se ci sarà spazio per le parole di Tomaso Montanari o di Marco Revelli. Loro si sono presi tutto, a noi non resta quasi nulla. Ma poi sorrido. Perché se prendiamo consapevolezza che si sono presi tutto, forse capiremo una volta per tutte che il riformismo non basta più. O ci riprendiamo tutto o non ci lasceranno niente. Eccolo il quasi nulla da opporre al loro tutto. Un fastidio, un inciampo, una resistenza, un vuoto, una parola scomoda pronunciata non a favore delle TV. Come un piccolo ingranaggio che fa saltare il serrato sistema del capitalismo nei Tempi moderni di Chaplin. Più loro si prendono tutto, più il quasi nulla può essere scomodo. Basta poco perché tutto non sia davvero il tutto.
Non confortano queste Sue riflessioni, anzi danno sostanza ad inquietudine crescente per un tempo in cui le voci libere sono censurate e minacciate in una logica perversa di potere. “Prendiamoci tutto”. Facciamo danzare nani e ballerine , il popolo sarà contento tra i crapuloni e la decadenza della cultura ossequiosa e il giornalismo fido custode di questo potere conquistato con partecipazione minimale. Tempi di pietra.
prorpio per le ragioni che emergono chiaramente da questo articolo a mio modo di vedere occorre ritornare attentamentea quelal che si potrebbe chiamare “Operazione Letta”. Era chiaro a tutti che l’ostracismo nri confronti del M5S avrebbe condotto i fascisti al governo. Ed era abbastanza evidente il fatto che ‘non avrebbero fatto prigionieri’!! E sopratutto questo era chiaro al gruppo dirigente del PD, e a Letta in particolare. Che (attenzione!!) non ha dato le dimisisoni dopo la tremenda sconfitta, ma ha combinato le cose in modo da ritardare l’elezione del nuovo segretario, ha costituito i nuovi gruppi parlamentari, etc. – Cioè, al di là degli appelli contro i fascisti, ha operato anche dopo la sconfitta per anastetizzare i dolori per la sconfitta.