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07/04/2023 di: Luigi Pandolfi
Il Governo Meloni è al quinto mese. In mezzo, c’è una legge di stabilità approvata poco più di tre mesi fa. Quanto basta per una prima analisi delle scelte compiute sul versante socio-economico e per immaginare la traiettoria dei prossimi anni. Scelte e non-scelte. In entrambi i casi, l’impronta ideologica è chiarissima: neoliberismo, in forma rozza e brutale.
«Il nostro motto sarà “non disturbare chi vuole fare”. Chi fa impresa va sostenuto e agevolato, non vessato»: queste le parole d’esordio della neopremier dinanzi al Parlamento. Cascami di vecchie idee liberiste che riportano le lancette dell’orologio indietro di secoli. Vengono alla mente le parole di Adamo Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse». Siamo di nuovo qui. Non sappiamo se la Meloni abbia mai letto Smith, ovvero se si sia mai cimentata con i postulati astratti della successiva scuola “neoclassica”, ma nelle sue parole, evidentemente influenzate da certe idee ormai superate dalla storia e sconsacrate dai fatti, si evince chiaro un concetto: l’individuo, che in questo caso coincide con la figura dell’imprenditore, se lasciato a sé stesso, non realizzerà soltanto il proprio interesse personale ma farà il bene di tutta la collettività. Decenni di storia economica e di prassi politico-economica che ha reso meno dura la vita per le classi sociali subalterne, perfino alcuni aspetti positivi dell’interventismo di epoca fascista, gettati nel cestino della spazzatura, in nome del primato del mercato, del laissez faire, come nemmeno i grigi governi tecnici dei Monti e dei Draghi avevano osato fare.
I primi provvedimenti del Governo in materia economica sono coerenti con questa visione della società. Meno Stato (fatta salva la sua funzione di polizia), meno tasse per le imprese e per chi fa profitti, mano tesa agli evasori, crociata contro il concetto di reddito di base, bocciatura del salario minimo, ancora politica dei bonus, in linea con i governi precedenti. Sono i tratti salienti della manovra approvata a dicembre. Nello specifico, parliamo essenzialmente di contenimento della spesa sociale in ossequio ai vincoli europei (ritorno dell’austerità), di estensione della tassa piatta del 15% per gli autonomi e le partite Iva fino a 85mila euro, della cosiddetta “tregua fiscale” con annullamento dei debiti dal 2000 al 2015 di importo fino a mille euro, dell’innalzamento a 5mila euro del tetto del contante, della riduzione da 18 a 7 mesi, con taglio dell’assegno e inasprimento delle clausole sulle proposte di lavoro, del reddito di cittadinanza, che in prospettiva si prevede di cancellare del tutto. «Chi fa impresa non va vessato», né con le tasse (dopo Smith, bisognerebbe richiamare Nassau William Senior, per il quale il profitto era la giusta remunerazione dell’«astinenza»), né con sussidi che fanno concorrenza ai salari. I salari sono troppo bassi? La colpa non è dell’imprenditore ma dello Stato che mette troppe tasse. La vecchia e cara storiella del cuneo fiscale, cara al centrosinistra quanto alla destra, che per il 2023 è stato tagliato di un altro 3%, con magri risultati, comunque, per i lavoratori (recupero in busta paga da 19 a 24 euro al mese).
Nella stessa manovra, spiccano poi altri due dati: il rifinanziamento insufficiente della sanità e l’aumento delle spese militari. Nel primo caso, l’aumento di 2,15 miliardi dello stanziamento per il Fondo sanitario nazionale basterà, a malapena, a coprire la maggiore spesa energetica degli ospedali e delle altre strutture sanitarie; nel secondo, parliamo di quasi un miliardo in più rispetto all’anno precedente, con l’impegno a raggiungere il 2% del PIL nei prossimi anni («Non abbiamo mai fatto mistero di voler aumentare la spesa militare. Non facciamo come i governi precedenti, noi la faccia ce la mettiamo», ha dichiarato nei giorni scorsi la premier). È un segno dei tempi. I soldi ci sono per le richieste della NATO, ma non per rilanciare la sanità pubblica, che potrebbe soffrire adesso anche della mancata attuazione di alcune specifiche misure del PNNR, mentre incombe lo spettro dell’autonomia differenziata, lo scellerato disegno leghista che farebbe a brandelli il Sistema sanitario nazionale, la balcanizzazione del Paese che la Meloni ha barattato col presidenzialismo, che non è in contrasto con la visione generale che il Governo ha della società. Una società in cui va avanti chi è più forte e chi è più debole si arrangia, rimane indietro. Concetto che può valere anche per i territori, le aree economiche del Paese, le regioni. La “secessione dei ricchi”, come l’ha definita Gianfranco Viesti.
Intanto, il «non disturbare chi vuole fare» sta continuando a dare i suoi frutti avvelenati. Come la delega al Governo per la riforma fiscale. Per le persone fisiche, si prevede una riduzione delle aliquote da 4 a 3, «nella prospettiva della transizione del sistema verso l’aliquota impositiva unica» (la flat tax). Per le società, l’abbattimento al 15% (dal 24%) dell’aliquota Ires, se faranno nuovi investimenti e nuove assunzioni. Tutto per gli abbienti, insomma. Non ci vuole molto a capire che la tassa piatta favorisce i redditi medio-alti. Un colpo al principio della “progressività” contenuto all’art. 53 della Costituzione. Siamo sempre lì: le agevolazioni fiscali e i favori alle imprese e ai ricchi si riversano a cascata, dall’alto verso il basso, e alla fine ne beneficia tutta la collettività. La teoria dello “sgocciolamento”. Reagan e Thatcher con trent’anni di ritardo. Proprio quando tutti gli indicatori dicono che il problema del Paese è la forbice sempre più allargata tra chi sta sopra e chi sta sotto, tra profitti da capitale e salari da lavoro. Lo scollamento tra azione di governo e bisogni reali ha ormai assunto proporzioni drammatiche.