I muscoli di Nardella e la tutela del patrimonio artistico

Volerelaluna.it

23/03/2023 di:

Un meme vivente. Dopo tutte le sue pelose campagne sul “decoro” urbano, il sindaco di Firenze, urlando parolacce, placca fisicamente l’attivista di Ultima Generazione: e se quello fosse caduto male, e si fosse rotto la testa? Ci manca solo il sindaco sceriffo, giustiziere oltre la legge. Segue il sindaco operaio, che pulisce il muro in piedi su un trabattello, senza nessun presidio di sicurezza: altro bell’esempio. Tutto a favore di camera, per costruirsi un’immagine mediatica da monuments man, anzi da monuments macho.

Ma, anche a prescindere da quelle sequenze imbarazzanti, la credibilità di Dario Nardella come difensore di Palazzo Vecchio sta a zero. Egli era infatti vicesindaco quando il sindaco Matteo Renzi fece trapanare, nel 2011, gli affreschi di Giorgio Vasari nella dissennata ricerca della perduta Battaglia di Anghiari di Leonardo. La funzionaria competente dell’Opificio delle pietre dure si rifiutò di avallare quella terribile pagina di propaganda politica a spese del patrimonio culturale, denunciando la decisione della giunta fiorentina di «operare danneggiamenti alla superficie pittorica attraverso strappi non motivati da considerazioni conservative». Altro che vernice lavabile: ma allora Nardella era l’ombra muta di Renzi.

E nel 2015, quando si era ormai messo in proprio come sindaco, Nardella affittò il Salone dei Cinquecento a una convention intitolata all’“Hard Luxury”, il lusso estremo, sottraendolo alle visite. E questa volta ad essere ferita gravemente fu la funzione civile di Palazzo Vecchio, che in quanto palazzo della città è anche la casa di chi non ha una casa, in un momento in cui la diseguaglianza estrema è il principale problema dell’umanità. Ma proprio questa è la cifra della Firenze Renzi-Nardella, una città che espelle i residenti dal centro attraverso una super-gentrificazione turistica che nemmeno la pandemia ha fermato (ora è il turno degli studentati di lusso, doppio schiaffo al diritto allo studio e a una idea di città). Come dimenticare la cena della Ferrari a Ponte Vecchio, quella di Stefano Ricci sul Ponte a Santa Trinita, il Battistero fasciato da un enorme foulard di Pucci, le sfilate di moda agli Uffizi, le partite di golf nella Biblioteca Nazionale, l’addio al celibato e poi la “mostra” di Lagerfeld nelle sale della Galleria Palatina di Palazzo Pitti, la cena della Morgan Stanley in una cappella di Santa Maria Novella, la proiezione del logo dell’American Express sull’Ospedale degli Innocenti…? E dunque: è un po’ di vernice (lavabile con molta meno acqua di quella che Nardella ha usato per impedire ai turisti di sedersi sui sagrati delle chiese storiche…) a mettere in pericolo i monumenti, o è invece il loro insostenibile sfruttamento, che appartiene a quella stessa logica che conduce il Pianeta alla rovina, e che i militanti di Last Generation denunciano usando l’arte, ma senza di fatto minimamente nuocerle?

Ma perché scegliere proprio l’arte? La retorica del discorso pubblico italiano (che in Nardella conosce uno dei più entusiasti ripetitori automatici) prevede che in ogni programma politico, poco importa di quale parte, figuri inesorabilmente un paragrafetto sulla necessità di “sfruttare” il “nostro petrolio”: che sarebbe ciò che l’articolo 9 della Costituzione chiama «il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», imponendo alla Repubblica di tutelarlo. La metafora del petrolio, invalsa negli anni Ottanta, è – suo malgrado – eloquente. Il petrolio, nero e sotterraneo, per dare energia deve distruggersi, creando inquinamento. I tentativi di messa a reddito di un patrimonio non meno oscuro (almeno nella coscienza della classe dirigente italiana) l’hanno usurato materialmente, ne hanno distrutto la funzione costituzionale, hanno prodotto inquinamento culturale.

Per come è stata fin qui immaginata e condotta l’economia del patrimonio culturale è infatti una classica “economia di rendita”. In tal modo si applica anche all’Italia ciò che scrive Joseph Stiglitz: «I paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa» (Il prezzo della disugaglianza [2012], Torino 2013, p. 67). La privatizzazione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” del sistema museale italiano (avviata da Alberto Ronchey nei primi anni Novanta) ha prodotto un oligopolio di pochi concessionari con importanti connessioni politiche; pochi posti di lavoro stabili; una produzione culturale di infima qualità (la cosiddetta “valorizzazione”); e non di rado danni materiali al patrimonio: cioè la peggiore delle economie di rendita. Insomma, un sistema fedelmente modellato sull’industra dell’energia fossile: la più micidiale macchina di distruzione del clima e dunque della vita sul pianeta.

Alla luce di tutto questo, chi può stupirsi che per colpire l’uso delle energie fossili si cavalchi l’appeal del “petrolio” culturale? Oggi molti uomini di potere di mezza età definiscono questa campagna planetaria inutile, o controproducente, dicendo di condividerne i fini ma di disapprovarne i modi. Ma si guardano bene dal cambiare le loro decisioni, o anche solo di suggerire modi migliori per mobilitare l’opinione pubblica. È forse la prova migliore della sua efficacia. Da storico dell’arte trovo perfetto il messaggio (nonviolento e incisivo) che si vuole mandare. La nostra Costituzione proclama l’inscindibilità tra ambiente e patrimonio storico e artistico: che rischiano oggi di perire insieme, se non cambiamo radicalmente il nostro modello socio-economico. E poi, come ha scritto Franco Marcoaldi, «chi non sa apprezzare un albero / non può apprezzare un quadro».

Una versione più breve dell’articolo è stata pubblicata su Il Fatto quotidiano