Ascoltando le dichiarazioni programmatiche di Mario Draghi al Senato il 17 febbraio, la percezione è di una progressiva chiusura e oscuramento dell’orizzonte; i colori scompaiono e non è il green a dominare la scena. Nulla di inaspettato: il discorso riflette la biografia del Presidente del Consiglio (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/02/09/mario-draghi-una-vita-per-le-elites/), uomo della finanza internazionale, attore della global economic governance (della quale, emblematicamente, rispecchia nella sua carriera il mélange fra pubblico e privato).
Nelle comunicazioni, al netto dei passaggi retorici, risaltano due elementi: l’insistenza sull’unità e la centralità dell’economia, che attraversa trasversalmente i vari temi, costituendone l’architrave e il parametro.
Primo punto: «l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere». Ora, non si intende certo negare la necessità di combattere l’epidemia, di fronteggiare la crisi economica e sociale, e, di conseguenza, che le forze politiche debbano agire con «senso di responsabilità», ma la “ripresa” proposta/imposta ha una direzione precisa e non è il frutto di un compromesso in senso alto (come quello, per intenderci, che ha dato vita alla Costituzione). La “ricostruzione” intorno alla quale si adagia l’ampio arco di partiti che ha votato la fiducia è interna al modello neoliberista: segna una ristrutturazione e una rimodulazione delle forze egemoni, non certo una nuova direzione o una loro limitazione. Draghi cita il secondo dopoguerra, ma il contesto è radicalmente diverso: non c’è un conflitto sociale “attivo”; non ci sono partiti e sindacati di massa; non c’è l’Unione sovietica; non c’è la tensione a costruire “un mondo nuovo”. I partiti, leggeri e liquidi, con un progressivo moto centripeto si sono chiusi all’interno dello spazio, economico, sociale, di pensiero, neoliberista. La classe politica, senza visioni e ancillare rispetto alla razionalità economica, non fatica a conferire una parvenza di abito politico e rappresentativo ad un direttorio economico. Le linee sono quelle delineate, già prima della pandemia, in sede di Unione europea e l’agenda è dettata dalla pressione delle lobbies: l’innovazione tecnologica, la digitalizzazione e il Green Deal. La transizione ecologica non segna l’avvio di un’altra visione del mondo, ma l’attenzione del capitale per nuove terre (…i nomi dei ministri sono indicativi sull’interpretazione dell’ecologia cui si intende dar corso), con il surplus di possedere un outfit di tendenza. Una effettiva transizione ecologica non può prescindere dal trasformare il modello economico e dal coniugare giustizia ambientale e giustizia sociale (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/02/19/transizione-ecologica-e-nata-una-bolla/). L’introduzione di (modeste) misure sociali, come la “solidarietà” europea, non derivano da un cambio di rotta, ma dalla congiuntura: sono finalizzate al riallineamento del sistema. Il richiamo alla «responsabilità nazionale» come “dovere di unità” intorno a una prospettiva, oltre ad occultare le responsabilità di chi le diseguaglianze le ha create (e continua a crearle), veicola la negazione del conflitto (in primis, sociale) e si presta a stigmatizzare e ad espellere chi si ostina in direzione contraria, fornendo alimento alla marginalizzazione e repressione del dissenso (https://volerelaluna.it/controcanto/2021/02/13/ti-piace-il-presidente-draghi-no-non-mi-piace/). E non mi riferisco ovviamente alla Meloni, ma a chi agisce il conflitto nei territori, nei luoghi di lavoro, nel pensiero. Il Parlamento, senza più alcuna parvenza di dialettica (non può l’opposizione esistere solo per voce di pochi dissidenti o essere pericolosamente abbandonata a Fratelli d’Italia), continua il suo percorso di (auto)mortificazione ed emarginazione. La legittimazione fornita dall’emergenza sanitaria accelera il processo di presidenzializzazione, così come di eterodirezione della politica da parte dell’economia (dalle lettere al governo diretto), con il corredo di un’aura di ineluttabilità.
Secondo punto: economy first. Occorre fronteggiare, oltre la pandemia, la crisi economico-sociale, quindi, è essenziale manovrare le leve economiche. Ma, come? E con quale fine? Il percorso che indica Draghi è quello già tratteggiato dalla bozza di Recovery Plan del governo Conte, nella quale, del resto, era presente sottotraccia il “piano Colao”… del neo ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/06/12/il-vecchio-mondo-del-piano-colao/): i richiami e i ringraziamenti a Conte non sono solo una captatio benevolentiae verso la sua maggioranza. L’utilizzo del Recovery Fund, tuttavia, per il côtè della finanza globale, per i colossi del Big Tech, ma anche per la nostrana Confindustria, richiede maggior ortodossia e professionalità: in gioco sono occasioni di profitto, le scelte dei settori sui quali puntare, il rispetto delle condizionalità UE, la stabilità complessiva del mercato. È il finanzcapitalismo, ovvero la sua rete di “nuovi sovrani”, impersonificati nelle imprese, quelle competitive, e negli impalpabili, ma tirannici, investimenti, l’oggetto – e il soggetto – del programma, con buona pace della centralità della persona del disegno costituzionale (https://volerelaluna.it/commenti/2021/02/16/mario-draghi-e-i-polli-di-renzi/). La Costituzione, del resto, non compare, né formalmente né sostanzialmente, surrogata nei suoi principi da paradigmi altri: l’economia sociale di mercato fortemente competitiva dei Trattati UE, declinata, vista la congiuntura, attraverso il ricorso a politiche espansive e (almeno per ora) non nel segno dell’austerità. La pandemia e la crisi, nella loro tragicità, potrebbero esercitare un ruolo palingenetico, ma la mappa tracciata da Draghi non prefigura cambi di rotta. Nessuno spazio per un rilancio dell’intervento dello Stato nell’economia: «compito dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione», alias agire sui vari fronti, dalla formazione alla pubblica amministrazione alla giustizia civile, per predisporre le infrastrutture necessarie per la crescita delle imprese, degli investimenti, del mercato. Il passaggio (condivisibile) sulle diseguaglianze nella scuola prodotte con la didattica a distanza non apre alla sua configurazione come strumento di emancipazione. Si ragiona di promozione del «capitale umano»; si affacciano must del percorso di aziendalizzazione della scuola, come la formazione, le competenze, l’adeguamento alle esigenze del mercato del lavoro (soddisfare «il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale»). Il volontariato è valorizzato come «capitale sociale», in una prospettiva, si può aggiungere, in cui esso è utile nel fungere da ammortizzatore sociale; sempre che, ça va sans dire, il settore – che sia previdenza, assistenza, sanità – non interessi ai privati. L’approccio neoliberista innerva le politiche finanziarie, monetarie e fiscali, che devono agevolare gli investimenti delle imprese (non garantire i diritti sociali…), così come la parità di genere, che solo in una distopia retta dalla competitività e abitata da “imprenditori di se stessi” si traduce in «parità di condizioni competitive». Mi fermo qui.
Anzi, ancora un punto: i migranti. «Cruciale… una politica europea dei rimpatri»: si strizza l’occhio alla Lega, ma soprattutto si mantiene saldo l’ancoraggio alle politiche europee di esternalizzazione delle frontiere. Non una parola sui morti nel Mediterraneo, sulle persone respinte in Libia o verso le violente frontiere balcaniche.
Il discorso di Draghi è il programma di un governo neoliberista, di una tecnica e di una politica: è il frutto di un’egemonia economica e politica, quando non sociale e antropologica. Riconoscerlo è il primo passo per rompere la cappa del pensiero unico, di una unità che è negazione di alternative (quando non tout court di dissenso), di una «coesione sociale» che occulta il conflitto sociale e mistifica la giustizia sociale.
La foto in homepage è di Kohlmann Sascha
SONO D’ACCORDO CON LEI PROF.SSA ALGOSTINO.
D’ALTRA PARTE CHE COSA CI SI POTEVA ASPETTARE DA QUEL LUMICINO DI SINISTRA PRESENTE IN PARLAMENTO CHE NON VEDE, O FA FINTA, ALDILA’ DEL PROPRIO NASO. CHE NON HA ALTRA PROSPETTIVA E VISIONE DEL FUTURO CHE NON SIA LA “GOVERNABILITA” AD OGNI COSTO.
A RICORDARE BENE IL P.C.I. E’ SEMPRE STATO ALL’OPPOSIZIONE, MA HA CONSENTITO ALLE CLASSI PIU’ SVANTAGGIATE DI LOTTARE E DI OTTENERE SIGNIFICATIVE CONQUISTE SOCIALI.
E’ INUTILE SPERARE ANCORA QUALCOSA DA QUESTA CLASSE POLITICA. DOBBIAMO LASCIARLI A SE STESSI, DIMENTICARLI E PORTARE NELLA SOCIETA’ LE NOSTRE RAGIONI, LOTTE E PASSIONI. COME QUANDO CI SI SVEGLIA DA UN BRUTTO SOGNO E SI TIRA UN SOSPIRO DI SOLLIEVO.
CORDIALI SALUTI
FOGLIZZO TRANQUILLO
ALTRE ALTERNATIVE NON CI SONO A MIO PARERE