Ha vinto il Sì. In modo netto. Come era prevedibile e come – pur convinti assertori del No e delle sue ragioni – avevamo previsto. Adesso occorre ragionare sul dopo.
1.
Cominciamo dai dati. Hanno votato in molti nonostante la disaffezione dalla politica e malgrado il Covid: 24.993.020 in Italia (53,84%) e 1.057.211 all’estero (23,30%). Si è votato di più (significativamente di più) nelle regioni in cui era previsto anche il rinnovo dei consigli regionali. E si è votato di più nel centro nord; assai meno al sud e, soprattutto, nelle isole. Ma, complessivamente, il fatto che più di un elettore su due si sia presentato al seggio dimostra che il tema della Costituzione non è totalmente sparito dal radar degli italiani. Hanno votato Sì 17.168.498 elettori (69,64%) in Italia e 744.557 (78,24%) all’estero, relegando il No al 30% e, in numeri assoluti a 7.692.029 voti. Alcuni commenti a caldo.
Primo. La vittoria del Sì è, come detto, molto netta, seppur con un numero di consensi inferiori a quello di precedenti consultazioni referendarie affini in cui risultò vincente: l’abolizione delle preferenze nel 1991 e il passaggio dal proporzionale al maggioritario del 1993 (che videro, rispettivamente, 26 milioni e 896 mila e quasi 29 milioni di Sì).
Secondo. Il numero dei No è stato assai elevato se si considera che la riforma costituzionale è stata approvata in ultima lettura dal 97% dei senatori e che le principali forze politiche (rappresentative del 90% degli elettori) si sono schierate per il Sì. E ciò anche a tacere del fatto che i consensi per il No si sono moltiplicati (come dimostrano i sondaggi) nel corso della – breve – campagna elettorale quando i termini della questione sono stati finalmente conosciuti. Evidente lo scarto, anche in questo caso, tra rappresentanti e cittadini.
Terzo. La composizione del voto è, come sempre, fondamentale per comprenderne il senso politico. E, al riguardo, il dato è piuttosto chiaro. Il Sì è particolarmente forte al Sud, evidente seguito del successo del M5S nelle ultime elezioni politiche (pur, sui temi generali, in via di dissoluzione). Se ciò era scontato non altrettanto è a dirsi per altri profili. Anzitutto per la tipologia dell’affluenza alle urne, che è stata, in genere inferiore nei capoluoghi rispetto al resto delle regioni e poi, sempre nelle città, per il radicamento del Sì e del No: nei quartieri popolari e nelle periferie il primo, nei quartieri “bene” e in quelli della “borghesia riflessiva” il secondo. Basti guardare a Roma, dove il No ha vinto con il 56% nel primo municipio mentre il Sì ha trionfato con il 73% a Torre Angela e a Tor Bella Monica, o a Torino, dove il Sì ha raccolto complessivamente il 60,75% mentre nella zone centrali e il collina il No ha raggiunto il 70%. La conclusione univoca è che la parola d’ordine (pur falsamente) “anticasta” resta un riferimento fondamentale nelle zone più povere del Paese, nelle periferie e nell’elettorato popolare (cioè nei tradizionali serbatoi del voto di sinistra, ormai da tempo svuotati…).
2.
Dopo i dati alcune prime valutazioni.
La diminuzione dei parlamentari a 600 (400 deputati e 200 senatori elettivi), con una riduzione di 345, non è una catastrofe destinata a stravolgere l’assetto costituzionale (anche questo lo abbiamo scritto nel dibattito preelettorale: https://volerelaluna.it/referendum/2020/09/02/referendum-qualche-risposta-ai-fautori-del-si/). E tuttavia le sue conseguenze politiche e istituzionali non sono di poco momento.
Sul piano politico la vittoria del Sì porta con sé – oltre al rafforzamento del Governo (portato evidente, duraturo o contingente che sia, del successo della scelta dei suoi azionisti di maggioranza) – due conseguenze solo apparentemente contraddittorie: il rafforzamento dell’attuale assetto dei partiti (che avrebbe dovuto essere scardinato dal voto ma che, al contrario, ne esce rafforzato, come dimostrano già le prime reazioni dei loro leader, a tutto interessate meno che a una autoriforma) e la delegittimazione di questo Parlamento (che molti si affrettano a indicare come non legittimato ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica). Cose, entrambe, che non promettono niente di buono per il futuro.
Ma è sul piano istituzionale che gli effetti del taglio dei parlamentari sono più rilevanti e, soprattutto, permanenti. Lo dico con le parole di un prestigioso costituzionalista che non si è certo speso per il No, Gustavo Zagrebelsky: «Riducendo i numeri, si alza implicitamente la soglia per accedere al seggio parlamentare. Ciò crea difficoltà per i piccoli partiti e porta con sé un effetto maggioritario» (http://www.libertaegiustizia.it/2020/09/21/zagrebelsky-perche-molte-ragioni-del-no-non-stanno-in-piedi/). Non si tratta di una valutazione ma di un automatismo: qualunque sia – se ci sarà – la prossima legge elettorale, le soglie di fatto per l’accesso a Camera e Senato saranno molto elevate e, di conseguenza, il Parlamento sarà appannaggio di quattro o cinque partiti, basterà il 40% dei consensi per dare la maggioranza assoluta dei seggi (e anche più) e le minoranze resteranno prive di rappresentanza. Il salto è rilevante e, almeno dal mio punto di vista, non certo positivo in termini di democrazia reale.
3.
Che fare in questa situazione?
Ovviamente non piangersi addosso ma ragionare su nuove strade e prospettive. Con due obiettivi prioritari: riunificare il campo che si è diviso nel referendum e aggiornare il modo di fare politica.
È stata una brutta campagna elettorale. Non solo per la volgarità dei toni e degli argomenti utilizzati da molti (secondo un costume ormai radicato) ma ancor più perché ha spezzato il tessuto unitario che si era creato, in ambito progressista, nelle precedenti tornate referendarie e non solo. Ritessere quel tessuto non sarà facile ma è necessario. Sul come, abbiamo cominciato a ragionare su queste pagine con un contributo dei responsabili di alcune organizzazioni della sinistra (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2020/09/18/per-una-democrazia-costituzionale-pluralista-e-conflittuale/). Ma c’è un terreno su cui ci si dovrà misurare a breve: quali correttivi mettere in campo a fronte della riduzione del numero dei parlamentari. Certo non basterà ridisegnare i collegi, come previsto (entro sessanta giorni) nella legge costituzionale. Occorre quantomeno attuare quanto richiesto da un’altra costituzionalista schieratasi per il Sì, Lorenza Carlassare, secondo la quale ora occorre una legge proporzionale con soglia di sbarramento non superiore al 3% senza liste bloccate e con pluri-candidature. Sarà il primo banco di prova per verificare la sincerità o la strumentalità delle promesse preelettorali. Le premesse non sono buone: la confusione è grande e le divergenze notevoli. Ma, proprio per questo, non si deve smobilitare.
L’aggiornamento del modo di far politica è, per altro verso, una necessità resa ancor più impellente dal cambiamento istituzionale. C’è, come prospettiva a medio termine, la realizzazione di un nuovo e diverso radicamento territoriale e la riunificazione del politico con il sociale (prospettiva nella quale si muove, sin dall’inizio, “Volere la luna”). Ma c’è anche un problema di tempi brevi, che si misuri con la realtà della progressiva e inevitabile insignificanza delle formazioni politiche medio-piccole. Personalmente non ho risposte certe, ma credo che la questione non sia eludibile. Magari a partire da una provocazione ancora di Gustavo Zagrebelsky, che fa l’occhiolino a modelli anglosassoni assai discutibili ma che ha il pregio del realismo: «Non abbiamo detto negli ultimi lustri che i piccoli e piccolissimi partiti sono una complicazione e che meglio sarebbe la semplificazione? Semplificare non vuol dire annullare, ma promuovere confluenze e concentrazioni in gruppi più vasti con i quali esistano affinità».
Ancora con questa pulsione di morte all’idea di una fantomatica unità dei progressisti, con la scusa che sono gli Altri ad averci costretti al menopeggismo? Ancora pensiamo che basti stare in un contenitore “di qua”, per non tirare acqua al mulino del “di là”?
No. Sono le idee più concrete e verificabili, a poter camminare sulle gambe delle persone. Non le coalizioni che c’imbrigliano allo status quo. Le gambe delle persone le azzoppiamo di brutto, se contribuiamo pesantemente e irrevocabilmente a rendere sempre più fumosa la verificabilità delle proposte politiche.
Perché così si finisce: 1) gli avversari parlano “meglio” al popolino, 2) gli “amici” spesso non se ne differenziano per cose verificabili ma solo per (apparente?) maggiore umanità, 3) si preferisce l’unità della propria aggregazione politica piuttosto che sbugiardare le ipocrisie in modo radicale, 4) si lascia dominare l’idea che sia impossibile stare fermi su quanto di concreto e verificabile si è sbandierato agli elettori.
Se quest’ultima è in realtà la balla più pericolosa, per il futuro di una democrazia che voglia continuare a definirsi tale, allora sarebbe meglio non spianarle la strada con le altre tre tappe del percorso già segnato (da altri).