La giustizia in crisi: dov’è Magistratura democratica?

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Non c’è pace per la giustizia.
Non bastano le ricadute dell’epidemia di Covid-19 (protratta chiusura dei tribunali e accumulo di decine di migliaia di fascicoli che, senza una ravvicinata amnistia, dilaterà oltre ogni limite i tempi della giustizia penale: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/amnistia-e-indulto-via-amara-ma-utile-per-la-fine-della-notte); la mancanza, a destra e a sinistra (passando per il centro), di qualsivoglia progetto riformatore credibile (surrogato da inverosimili promesse di nuovi codici e di dimezzamento della durata dei processi dietro l’angolo); le risse nella maggioranza di governo sul sistema giudiziario (produttive solo di paralisi e rinvii); l’improvvisazione di un guardasigilli surreale le cui opzioni di merito sono improvvide quanto la scelta dei propri collaboratori. Non basta tutto questo. C’è, a fianco, il precipitare della magistratura e del suo sistema di governo in una crisi senza precedenti, provocata dal susseguirsi al suo interno, con frequenza impressionante, di prassi e comportamenti impropri o tout court illeciti, tali da minare la credibilità della giustizia. Da un anno a questa parte emerge di tutto e di più (con manifestazioni diverse ed eterogenee ma egualmente significative): indecenti incontri segreti di un autorevole esponente associativo e di alcuni componenti del CSM con parlamentari di spicco per condizionare le nomine di procuratori della Repubblica di sedi cruciali e dello stesso vicepresidente dell’organo di governo autonomo (https://volerelaluna.it/commenti/2019/06/06/buio-al-csm-tempesta-o-temporale/); l’arresto di un procuratore della Repubblica con l’accusa di avere concorso a costruire, strumentalizzando le proprie funzioni, un gruppo di potere economico-imprenditoriale; allegre comparsate televisive di pubblici ministeri di primo piano per lamentare la mancata attribuzione di incarichi politici e amministrativi; raccomandazioni, pressioni e favori trasversali di magistrati noti e/o sconosciuti in tema di nomine o trasferimenti propri o di propri congiunti; rapporti spregiudicati di pubblici ministeri con giornalisti delle più importanti testate e molto altro ancora.

Che la giustizia e la magistratura ne escano con le ossa rotte e con un indice di fiducia dei cittadini ridotto al lumicino è naturale. Ci sarebbe da stupirsi del contrario. Ma la cosa più grave – che rischia di rendere la crisi irreversibile – è l’incapacità dell’associativismo giudiziario di cogliere che quella in atto non è la somma di alcuni (isolati) incidenti di percorso ma una trasformazione genetica della magistratura. Basta guardare le reazioni dell’associazione magistrati e delle sue componenti di fronte al ripetersi, o all’emergere, degli scandali: prese di distanza, tanto sdegnate quanto tardive, da comportamenti scorretti, sempre attribuiti a poche “mele marce” (senza che ciò abbia intaccato la pratica degli accordi occulti e trasversali nelle recenti scadenze elettorali per integrare il Consiglio superiore); enfatizzazione della portata etica (sic!) delle dimissioni (all’evidenza inevitabili) dei membri del CSM coinvolti in poco edificanti maneggi; accorate proteste per la pubblicazione di stralci di intercettazioni prive di rilevanza penale, fino a ieri – quando riguardava altre categorie – tollerata (o finanche incentivata) e considerata oggi un attacco alla magistratura tutta e al suo organo di governo; dimissioni dei vertici associativi (a pochi mesi dalla scadenza fisiologica) pur di evitare provvedimenti drastici nei confronti di tutti i magistrati coinvolti in scandali e/o pratiche clientelari. Sono reazioni elusive e superficiali che non colgono i termini della “questione morale”, e insieme, “politica” in atto. Eppure alcuni fatti sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederli. Mi limito ai più rilevanti.

Primo. Il sistema del conferimento degli incarichi direttivi e delle nomine in genere – parte rilevante dell’autogoverno – è viziato in modo ormai strutturale da prassi clientelari e da metodi che nulla hanno a che fare con la razionalità e le capacità degli aspiranti. Accade, certo, che vengano talora designati i dirigenti più adatti ma non è questa la priorità perseguita. I segnali erano chiari da tempo (vedi, per una vicenda esemplare, https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/06/18/il-csm-le-nomine-i-principi-una-testimonianza e, in generale, http://www.questionegiustizia.it/articolo/non-sognavo-il-consiglio_28-01-2013.php) ma da ultimo la situazione è precipitata come dimostra al di là di ogni dubbio lo spaccato emergente dalle intercettazioni dell’affaire Palamara. Eliminato, nelle nomine, il (certamente insufficiente) criterio della anzianità e senza la definizione di altri criteri oggettivi e controllabili, il cosiddetto merito, in mancanza di un rigore morale e politico diffuso, è stato ed è spesso confuso con l’amicizia, la vicinanza, lo scambio di favori. La generalizzazione del sistema ha fatto giustizia anche delle improprie e obsolete analisi che attribuivano le cadute dell’autogoverno a lottizzazioni correntizie: il “metodo Palamara” evidenzia che i riferimenti non sono più, da tempo, le “correnti” ma gli esponenti più forti e potenti di un indifferenziato “correntone” nel quale le idee e le impostazioni culturali non contano più nulla.

Secondo. Il rapporto tra politica e magistratura si è trasformato negli anni ed è sempre più inquinato da scambi e interessi. La (legittima e opportuna) partecipazione dei magistrati alla “politica delle idee” ha lasciato il posto a una partecipazione (impropria e pericolosa) alla “politica del potere” (per usare una definizione di Marco Ramat negli anni Sessanta). Anche qui non c’entrano, o c’entrano in misura ridotta, le deprecate correnti. C’entra l’occupazione degli uffici del Ministero della giustizia, e non solo, da parte di magistrati chiamati ad personam da ministri e sottosegretari e c’entrano gli incarichi di diretta connotazione politica (magari preceduti – l’una e gli altri – da trattative, assai poco commendevoli anche quando non andate buon fine). Tutto ciò crea un sistema di rapporti tanto vischioso quanto privo, salvo casi eccezionali, di valide ragioni: da un lato, infatti, non è dato vedere ‒ e nessuno ha mai spiegato ‒ perché il capo di gabinetto di un ministro o il direttore dell’Amministrazione penitenziaria debba essere un giudice o un pubblico ministero (che per lo più nulla sa di amministrazione e che del carcere non conosce altro che le sale destinate a interrogatori); dall’altro la permanenza, spesso protratta per anni, di magistrati in sedi di decisioni politico-amministrative crea un continuum tra politica e magistratura che nuoce all’indipendente esercizio della giurisdizione e, comunque, alla sua immagine (come emerge in tutta evidenza nei casi di passaggio da un incarico di diretta collaborazione con il ministro alla direzione di un ufficio giudiziario di primo piano). Non è in discussione la correttezza professionale dei magistrati interessati ma c’è un problema di cultura del ruolo e di immagine pubblica che non può essere ignorato.

Terzo. Alla mutazione genetica in atto della magistratura ha contribuito e contribuisce il sistema del reclutamento adottato con le riforme Castelli e Mastella (anche qui, dunque, di destra e di sinistra). È lì – nel reclutamento – che si forgiano i pubblici ministeri e i giudici dei decenni a venire. Le richiamate “riforme” ordinamentali hanno puntato su una sorta di concorso di secondo grado con accesso riservato, oltre che ai laureati in giurisprudenza diplomati presso la scuola di specializzazione per le professioni legali, ai magistrati amministrativi e contabili e ai procuratori dello Stato, ai dirigenti della pubblica amministrazione (centrale o degli enti locali) con almeno cinque anni anzianità con laurea in giurisprudenza e ad altri status consimili. Ne è seguita una marcata selezione per censo, l’innalzamento del livello medio dell’età dei vincitori del concorso, l’esclusione di alcuni dei candidati più brillanti e motivati, l’incremento della connotazione burocratica dei nuovi magistrati: in una parola, una profonda trasformazione sociologica (se non addirittura antropologica) del corpo giudiziario.

Questa è la situazione. Intendiamoci, si tratta di una parte soltanto del “pianeta giustizia” nel quale operano ottimi giudici e pubblici ministeri, come del resto è accaduto anche nei tempi più bui della nostra storia. Ma la loro presenza, fondamentale per la tenuta delle libertà e dei diritti, non è (più) il portato di una cultura egemone nel corpo giudiziario, dove ritornano, al contrario, idee, prassi e metodi che hanno caratterizzato la magistratura prima del “risveglio costituzionale” degli anni Sessanta e Settanta, intervenuto anche grazie alle rotture di un (piccolo) gruppo di magistrati, definiti “iconoclasti”, che diedero vita, in quegli anni, a Magistratura democratica (http://www.magistraturademocratica.it/docs/storia/storia-md-livio-pepino.pdf). In precedenza – è bene ricordarlo a chi invoca ritorni al passato e propone modifiche legislative o addirittura costituzionali per realizzarli – le pratiche oggi deprecate (ma tuttora in auge, non a caso, negli apparati burocratici: da quelli sanitari alle prefetture e alle questure, dalle reti televisive agli enti pubblici economici) erano regola: basti riandare alla legge n. 438 del 1908 (grida manzoniana che vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera) o, cinquant’anni dopo, al Diario di un giudice di Dante Troisi, pubblicato nel 1955 da Einaudi (e riproposto nel 2012 da Sellerio), che portò al suo autore un grande successo letterario e… una censura disciplinare.

È tempo di trarre le conseguenze. La mutazione in atto nella magistratura può essere contrastata – ammesso che si sia ancora in tempo – solo con scelte e comportamenti coerenti. Da sempre, in ogni ambito, il malcostume e la burocratizzazione si contrastano evitando le coperture corporative e contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. C’è dunque, anzitutto, da ridisegnare un modello di magistratura su cui chiamare al confronto la cultura politica e giuridica. Un modello contrapposto a quello funzionariale e fondato sulla effettiva pari dignità delle funzioni, sulla rigorosa temporaneità degli incarichi direttivi (privati di molti degli attuali poteri amministrativi), sulla separazione netta tra amministrazione e giurisdizione, su una rigorosa cultura della sottoposizione di giudici e pubblici ministeri soltanto alla legge (che significa, per usare parole di Giuseppe Borré, «disobbedienza a tutto ciò che legge non è, in particolare al pasoliniano “palazzo”»). È un’operazione impegnativa e di lungo periodo ma non ci sono alternative. Solo così, infatti, è possibile uscire dalle secche del pensiero dominante dando agli stessi magistrati prospettive diverse dalla pura gestione dell’esistente, dalla primazia degli orizzonti di carriera, dalle logiche amicali, clientelari e subalterne al quadro politico. Ma, per far questo occorrono, preliminarmente, un’analisi non consolatoria e una denuncia ferma delle cadute, delle compromissioni, delle deviazioni che investono la giurisdizione, la sua organizzazione, l’associativismo giudiziario.

Come fare? Lo dico in maniera un po’ brutale: il problema non sono le correnti – come (quasi) tutti, a destra e a sinistra, si affannano a dire – ma il loro venir meno, la loro intervenuta (e già segnalata) trasformazione in un unico indistinto correntone. La cultura della giustizia e del suo governo autonomo che ha segnato positivamente gli ultimi decenni del secolo scorso (grazie soprattutto all’elaborazione e agli interventi di Magistratura democratica) si è progressivamente attenuata sin quasi a scomparire, lasciando il posto a un marcato consociativismo (dimostrato, per esempio, dalla prassi costante dei governi unitari, con rotazione nelle cariche, dell’ANM) e alla difesa dell’autogoverno comunque e a prescindere (mettendo la sordina alle polemiche sugli atteggiamenti clientelari e deviati e dimenticando che il Consiglio superiore e le sue contingenti maggioranze non sono la stessa cosa e che solo la critica forte a queste ultime può salvare la sostanza e l’immagine del primo…). Senza un recupero di quella cultura critica e di prassi conseguenti non si uscirà dal pantano e non si contrasteranno credibilmente le “riforme” in cantiere tese a diminuire l’indipendenza e l’autonomia di giudici e pubblici ministeri. Ma ciò rinvia inevitabilmente a una domanda, decisiva ed esplicita: dov’è, oggi, Magistratura democratica, unico riferimento possibile per avviare questa operazione? E, insieme, qual è il suo luogo di elezione: il governo consociativo della corporazione o una rigorosa cultura della giurisdizione, fuori dalle stanze del potere?

Gli autori

Livio Pepino

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, "Forti con i deboli" (Rizzoli, 2012), "Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa" (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), "Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli" (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e "Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo" (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

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3 Comments on “La giustizia in crisi: dov’è Magistratura democratica?”

  1. Ottima analisi.
    Sarebbe interessante approfondire le ragioni per le quali il fenomeno degenerativo riguarda principalmente gli uffici del pubblico ministero.

    1. Ottima domanda, Paolo. Credo che le ragioni siano molte. Tra le altre ne indico due. Anzitutto, il rapporto (troppo) stretto del pubblico ministero – anche per ragioni oggettive – con i luoghi del potere politico (direttamente o per il tramite degli uffici di polizia) e mediatico (sempre più vero dominus della scena giudiziaria, in grado di esaltarne o distruggerne gli attori, protagonisti o comparse che siano): rapporto che può facilmente veicolare dei metodi e una cultura attenti al risultato più che alle regole. In secondo luogo, la diffusa ineffettività del processo, che proietta in primo piano – con tutte le possibili ricadute negative – i protagonisti delle indagini mentre l’esito finale (la sentenza: il proprium del giudice) non interessa più a nessuno, se non ai suoi destinatari diretti (imputati o parti offese che siano). Per arginare gli effetti negativi di questi fenomeni ci vorrebbe una forte cultura del ruolo e della giurisdizione che, evidentemente, non è veicolata a sufficienza dalla formazione. Sono solo due flash. Mi piacerebbe discuterne, evidentemente, anche su queste pagine.

      1. D’accordo sulle ragioni che esponi. Mi domando. La ” cultura del ruolo e della giurisdizione” che – tu dici – “non è stata veicolata a sufficienza dalla formazione” implica nella sostanza un sistema di educazione al rispetto dei valori su cui la Costituzione fonda la giurisdizione. Ma – sul piano operativo – quali sarebbero i mezzi idonei a favorire la penetrazione di questi valori?
        Tu citi la “rigorosa temporaneità degli incarichi direttivi, la separazione netta tra amministrazione e giurisdizione, la sottoposizione di giudici e pubblici ministeri soltanto alla legge”; il secondo e terzo punto sono già oggi costituzionalmente stabiliti, con scarsi risultati come si vede, data la profonda frattura tra diritto vigente e diritto vivente, che ha condotto di fatto il primo a diventare suddito del secondo in un grottesca inversione del rapporto fisiologico tra le due sfere. La riforma del Csm (con il sistema del sorteggio), un diverso modello di reclutamento, la separazione delle carriere – per citare alcune delle riforme di cui oggi si discute – potrebbero essere , in qualche misura, utili ?

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