Perché siamo contro l’ennesima riforma costituzionale, quella del “taglio dei parlamentari”? Perché darebbe una spallata a quella democrazia rappresentativa e partecipativa che abbiamo un disperato bisogno di ricostruire (si veda Livio Pepino, Elogio del sistema proporzionale). Perché comprimerebbe ancora la voce delle minoranze (si veda Francesco Montorio, Ridurre i parlamentari? No, grazie ). Perché, come ha ricordato con forza Alessandra Algostino, «la riduzione del numero dei parlamentari è, dunque, un tassello di una trasformazione della forma di Stato in senso autoritario, tendente ad espellere e a privare di agibilità politica, quando non a punire (il riferimento è ai decreti sicurezza), il dissenso».
Colpendo la rappresentanza parlamentare, questa riforma colpisce al cuore il sistema costituzionale. Rappresentare significa, letteralmente, rendere presente: rap-present-are. Dalle pitture di animali nelle grotte preistoriche alle statue degli dei classici, dalle icone bizantine ai ritratti dei re dell’antico regime: è da millenni che riconosciamo alle immagini la capacità di esercitare sul piano taumaturgico, magico, simbolico, politico i pieni poteri dei prototipi, reali o astratti, che rappresentano.
Ma chi rappresenta il Parlamento, a chi appartiene il potere che trasmigra in esso proprio come accadeva per quegli antichi idoli? È un soggetto che non può farlo da sé, la cui presenza è tuttavia essenziale per il sistema politico-istituzionale. Parliamo del popolo, entità presupposta, immaginata, ipotizzata, richiamata, evocata da tutti, ma da nessuno concretamente conoscibile perché concetto astratto.
Popolo è l’insieme dei cittadini: coloro ai quali si applicano le regole che attribuiscono la cittadinanza. Si può avere contezza dei singoli suoi componenti, ciascuno di per sé considerato, non del loro insieme. Eppure, è proprio al loro insieme che la Costituzione (art. 1, comma 2) attribuisce il potere fondamentale, quello che fa dello Stato ciò che è: la sovranità, il potere che non riconosce altri poteri superiori a sé. Si comprende, di conseguenza, il peso decisivo della rappresentanza: il supremo potere costituzionale è attribuito a un’astrazione, che solo la rappresentanza può concretizzare.
Rendere presente il popolo è compito del Parlamento. Discendono da qui tutti gli altri suoi poteri, che gli consentono di esercitare un ruolo-guida nella determinazione dell’indirizzo politico. Il Parlamento fu collocato dai costituenti al centro del sistema proprio perché è in Parlamento, attraverso i partiti, che il popolo cessa di essere un’astrazione e si concretizza.
Com’è evidente, stiamo parlando di un artificio: che può funzionare più o meno bene. Ha ben operato nella prima fase della storia repubblicana, e in particolare tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta: non a caso, gli anni in cui vennero approvate riforme capaci di rendere più giusta la società italiana. Ha, progressivamente, operato sempre peggio nei decenni successivi: punto di svolta, la trasformazione della legge elettorale da proporzionale in maggioritaria (1993), che ha alterato la costruzione della rappresentanza attribuendo la maggioranza nel parlamento a chi è minoranza nella società. La retorica sulla cosiddetta governabilità ha inquinato la riflessione in argomento, offuscando un profilo un tempo evidente e oramai controintuitivo: che le istituzioni costituzionali funzionano bene non se il governo può agire a briglie sciolte, bensì se il parlamento è realmente rappresentativo. Ed è quindi davvero capace di intercettare le istanze sociali profonde e rielaborarle in progetti politici durevoli e di ampio respiro.
È per questo che i costituenti avevano dedicato grande attenzione alla costruzione della rappresentanza, elaborando un meccanismo capace, almeno in potenza, di riprodurre in modo adeguatamente preciso le complessità della società italiana. Pur avendo uguali funzioni, Camera e Senato differivano notevolmente l’una dall’altro: per la durata (cinque e sei anni), per la base territoriale (nazionale e regionale), per l’elettorato attivo (18 e 25 anni), per l’elettorato passivo (25 e 40 anni). Stava a cuore la democrazia: non la “governabilità”.
L’attenzione per la rappresentanza spiega anche la scelta originaria sul numero dei parlamentari, stabilito non in modo fisso – come poi sancì la riforma costituzionale del 1963, che portò i deputati a 630 e i senatori a 315 – ma in rapporto alla popolazione: un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni 200mila abitanti. Un sistema che prevedeva, dunque, l’incremento dei parlamentari all’incremento della popolazione affinché rimanesse inalterata la capacità rappresentativa. Se fosse stato tenuto fermo, oggi avremmo, all’incirca, 750 deputati e 300 senatori: un totale superiore a quello attuale.
Chi oggi considera la riduzione del numero dei parlamentari una priorità, motivandola con i risparmi (gonfiati) che ne deriverebbero, sembra ignorare la centralità della rappresentanza. Riducendo i parlamentari a una voce di costo, anziché favorire l’identificazione tra eletti ed elettori – fine ultimo della rappresentanza – ne acuisce la contrapposizione, in tal modo svilendo ulteriormente la funzione rappresentativa e, con essa, la centralità del parlamento, e dunque del popolo, nel sistema costituzionale. Così, chi diceva di voler costruire più democrazia, si trova invece a rafforzare l’oligarchia: paradosso involontario o boicottaggio intenzionale?
Post scriptum
Interloquendo con una versione più breve di questo articolo, uscita su Il Manifesto sabato 5 ottobre, Marco Bascetta (Governanti e governati, lo scarto necessario, Il Manifesto, 6 ottobre) ha sostenuto che prefigurare un Parlamento pienamente rappresentativo, capace di realizzare «l’identificazione tra eletti ed elettori», sarebbe idea «gravida di pericoli».
Siamo un Paese in cui la metà degli aventi diritto non vota, in cui la sfiducia nei partiti politici e nella classe politica in generale è elevatissima, in cui i populismi dilagano attraverso e oltre le stesse forze politiche populiste – oramai scimmiottate crozzianamente da partiti “tradizionali” che all’«uno vale uno» replicano «tu vali tu», per non dire dell’inseguimento sui temi politici più scottanti come l’immigrazione o (appunto) l’antiparlamentarismo: ebbene, in una situazione del genere auspicare la ricomposizione tra rappresentanza e rappresentatività, di modo che i rappresentanti siano realmente rappresentativi dei rappresentati (Mortati), è davvero cosa «gravida di pericoli»?
La trasformazione in senso maggioritario della legge elettorale (trasformazione, peraltro, preceduta e sostenuta dal referendum popolare: particolare tutt’altro che secondario) ha prodotto sul sistema democratico costituzionale effetti analoghi a quelli dello schianto di un meteorite sul pianeta terra. Forme di vita politica sino a quel momento dominanti, benché già in crisi, sono scomparse e altre hanno preso il loro posto. Producendo un ribaltamento a tutt’oggi misconosciuto nel dibattito su questi temi, è stata sancita come normale la circostanza che, in un sistema parlamentare, le elezioni servissero a decidere i governi e che, in un sistema democratico, a governare fosse una minoranza politica. Dalla Legislatura iniziata nel 1994 a quella iniziata nel 2013, siamo sempre stati governati da minoranze politiche, trasformate dalla formula (magica?) elettorale in maggioranze parlamentari. Una cosa è divenuta il suo opposto. Come nel famoso quadro di Magritte, ci siamo lasciati convincere dalla scritta apposta a negazione dell’immagine: «questa non è una minoranza». Se a ciò aggiungiamo che dalla Legislatura iniziata nel 2006 sino a quella iniziata nel 2013 (per un totale, dunque, di dodici anni di vita parlamentare!) la rappresentanza è stata costruita attraverso una legge elettorale poi dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale (senza, peraltro, avere il coraggio di sancire, conseguentemente, che nel 2013 la convalida degli eletti avvenisse applicando gli effetti della sentenza), si comprende sino a che punto sia giunto in Italia lo scollamento tra rappresentanti e rappresentati, tra eletti ed elettori.
È una crisi ormai anche culturale: tanto che quasi tutti (anche Marco Bascetta in risposta al nostro articolo) leggono «governanti» dove è scritto «rappresentanti»: la riduzione della democrazia a una sorta di teologia del governo ci rende ormai incapaci di capire l’importanza cruciale della rappresentazione parlamentare: che è un fine in sé, non un gradino verso la costruzione del governo.
Attribuire il necessario risalto a quanto sopra significa cadere nella visione, tipica dei populisti, per cui il popolo si esaurisce nel leader che lo incarna? Difficile seguire l’avvitamento logico che potrebbe indurre qualcuno a ritenerlo (o – il che è lo stesso – ad attribuirlo a chi scrive). L’idea secondo la quale il popolo vota una volta ogni cinque anni e nel mezzo «non rompe le palle» (Salvini docet) è tipica della visione maggioritarista della democrazia. Una concezione per la quale la democrazia non è discussione, confronto, scontro: ma, decisione basata sulla mera prevalenza matematica di una posizione sulle altre. «Parlate pure, sfogatevi: tanto alla fine ci contiamo e noi siamo di più»: quante volte lo si è sentito ripetere in questi anni dagli scranni della maggioranza (ora di centrodestra, ora di centrosinistra) rivolgendosi alle opposizioni parlamentari? Una logica – si badi bene – perfettamente sovrapponibile a quella propria della democrazia diretta, in cui, alla fin fine, quel che rileva è contare le mani alzate o i click (è indifferente) dei fautori delle diverse opzioni in gioco: «ci conteremo sulla piattaforma Rousseau e vedremo se prevarranno i Sì o i No». La democrazia maggioritaria è, al pari della democrazia diretta, una «democrazia del monosillabo» (Alfonso Di Giovine).
Quel di cui abbiamo, invece, disperato bisogno è di una «democrazia del discorso», che sappia argomentare, discutere, convincere: anche qui, un atteggiamento da tradurre in tensione ideale, che non sempre sarà effettivamente realizzabile, ma che sempre dovrebbe stagliarsi sullo sfondo. Un atteggiamento generale: da rendersi intra ‒ e inter ‒ partitico, perché la rappresentanza sia una pratica che, ciascuna forza politica per sé e tutte le forze politiche nelle loro interazioni, viene costruita quotidianamente. Il che non escluse affatto – al contrario: implica – il possibile scollamento tra eletti ed elettori, in una dinamica politica sempre viva, che accompagna e influenza costantemente la Legislatura nel suo svilupparsi, e non si accende e si spegne, come con un interruttore, a scadenze prefissate. Naturalmente – e qui parliamo per esperienza personale – potrà esserci chi, nel contingente, non trova nelle forze politiche presenti in Parlamento interlocutori politicamente credibili. E che dunque vive su di sé lo scollamento che può venirsi a produrre tra eletti ed elettori. Ciò non toglie, tuttavia, che se si accettano le regole del gioco democratico, l’aspirazione rimanga quella rivolta alla costruzione di ciò che oggi manca: una rappresentanza, vale a dire, che aspiri a interloquire con tutti, anche con quella metà del corpo elettorale che oramai non vota più.
Ridurre il numero dei parlamentari, in quest’ottica, è il vero pericolo: perché rende l’articolazione parlamentare inevitabilmente – anche questa è matematica – meno capace di cogliere ed esprimere posizioni poco sostenute ma non per forza meno interessanti e meritevoli di ricevere voce pubblica. Occorre ribadirlo? Si tratta di un’aspirazione, che non è detto trovi realizzazione. Ma è così per tutte le istituzioni: si costruiscono modelli teorici che spetta poi agli uomini tradurre in pratica. Ci possono riuscire più o meno bene. Ma non c’è dubbio che, se si parte dal modello sbagliato, il risultato non potrà che essere negativo.
D’accordo su tutto. Tuttavia osservo che da anni nel dibattito politico si discute di riduzione del numero dei parlamentari. Il punto è che questo proposito si realizza nel tempo (l’odierno, di populismo spinto) e nel modo (taglio eccessivo) sbagliato, con i rischi che giustamente si paventano.
Ora, comunque, occorre subito una legge elettorale pienamente proporzionale a garanzia della sovranità e rappresentanza popolare.
Da lettore del manifesto ringrazio per la lunga risposta all’articolo di Bascetta, che nel passaggio qui sopra trascritto mi aveva immediatamente colpito e irritato per la sua assurdità. Spero che il manifesto pubblichi la replica. Secondo me, molto terra terra, Bascetta ha completamente frainteso l’espressione “identificazione tra eletti ed elettori” intendendola non come riconoscimento di autorevolezza e di piena rappresentanza di se stessi (“come se lì ci fossi io”) – e viceversa – ma come favorevole preludio alla democrazia diretta del click sulla rete. Giusto anche il rilievo alla spiacevole confusione tra governanti e rappresentanti, a indicare una visione complessivamente distorta della questione.
Ancora più spiacevole, purtroppo, che i nostri rappresentanti si apprestino a bastonare a tutto spiano la rappresentanza
Se il problema fosse il costo dei rappresentanti sarebbe più semplice diminuire il costo pro capite che non il numero dei rappresentanti. Si potrebbe fare senza modifiche costituzionali che hanno sempre degli effetti collaterali, vedi elezione del Presidente della Repubblica.
Bisognerebbe legare il numero dei parlamentari alla percentuale di votanti: se tutti vanno a votare il parlamento è pieno, se l’astensione aumenta il numero di parlamentari diminuisce. Così i partiti sarebbero costretti ad andare a cercare gli astenuti e cercare di capirne le ragioni