Quello che voleva tutto si ritrova con niente: dai pieni poteri alle mani vuote. E’ questo il raggio di sole che salva la giornata. Matteo Salvini che lascia (finalmente!) il Viminale – che peraltro aveva frequentato ben poco ma che aveva usato moltissimo come cassa di risonanza per le proprie esibizioni truci -, è comunque uno spettacolo da giorno di festa. Nemesis inviata dagli dei a punire la hybris del mortale che si credeva immortale.
Detto questo, e celebrato lo scampato pericolo, per il resto c’è poco da festeggiare. O comunque ci sono ben pochi motivi per considerare “nostro”, anche solo in parte, questo governo che nasce su una serie di paradossi (il più clamoroso: lo stesso Capo del governo per due esperienze di segno politicamente opposto, una con partner di minoranza la Lega di estrema destra, l’altra il Pd di incerta sinistra). E soprattutto considerando il percorso tutto fuor che lineare che ha caratterizzato la pur breve fase di trattativa, pieno di stop and go, di macigni posti e poi rimossi, disseminato di incertezze che rivelano vuoti mentali, assenza di visione, capricciosità, personalismi, con la suspence finale e un po’ surreale del placet di Rousseau . Un percorso che certifica il basso livello di qualità del nostro ceto politico (chiamarlo “classe politica” sarebbe troppo), il grado di inconsapevolezza della gravità della situazione del Paese, lo stesso livello di logoramento e di liquefazione delle organizzazioni che quei fragili leader guidano. Per una sorta di “eterogenesi dei fini”, come la chiamerebbe Gian Battista Vico – producendo cioè un risultato diverso da quello voluto -, con l’unico intento di salvare se stessi da morte certa , perché questo sarebbero state le “elezioni subito” per 5 Stelle e Pd, hanno in realtà salvato tutti noi dall’abisso di una orrenda destra trionfante. Di una maggioranza verde-nera che avrebbe potuto mettere le mani sull’intero assetto costituzionale stravolgendolo: non dimentichiamo che un Parlamento eletto a ottobre, come avrebbe voluto Salvini, e con quasi certezza dominato massicciamente dall’asse Lega-FdI, avrebbe eletto nel febbraio del 2022 il successore di Mattarella, avrebbe potuto modificare la Costituzione con una maggioranza tale da evitare il Referendum confermativo e avrebbe creato le condizioni per una Corte costituzionale per due terzi fascistoide dal momento che dei suoi 15 membri 5 li elegge il Parlamento e 5 li nomina il Presidente della Repubblica. Questo, ricordiamocelo, ci ha fatto tirare un sospiro di sollievo, considerando il Conte 2 il male minore. Ma il contesto, diciamocelo con altrettanta chiarezza, quello rimane, e continua a preoccupare. Anzi, per dirla tutta, a terrorizzarci perché non è il contesto di una normale crisi di governo. Di un ordinario passaggio di consegne politico all’interno di un quadro istituzionale stabile e di un sistema politico consolidato. Al contrario è lo scenario tipico di una “crisi di sistema”. Di una situazione in cui nessuno dei pezzi che costituiscono il sistema sta più al suo posto. Nessuna delle componenti (istituzioni, partiti, burocrazia pubblica, gruppi di interesse, riferimenti internazionali) interagisce più con le altre in condizioni di equilibrio e sul piano di una qualche prevedibilità di medio periodo. Quello in cui si muove il governo che nasce (come d’altra parte il contesto in cui era nato ed era vissuto quello precedente) è in uno stato spaventosamente fluido, quasi gassoso. Conserva perfettamente integra la radice del male che abbiamo sfiorato (radice sociale, affondata in una società a pezzi, gonfia di risentimento e di malessere, radice politica alimentata dal progressivo dissolvimento delle diverse “culture politiche” e dei loro portatori), che resta, e pesa, e continuerà a pesare ancora a lungo perché il Conte 2 non ne sanerà, per miracolo taumaturgico, le piaghe profonde. Potrà coprirle di pannicelli caldi, ma non guarirle.
E le piaghe sono ben visibili se si osservano i protagonisti stessi della crisi e della sua temporanea soluzione. Vorrei essere chiaro, non si tratta dei nomi dei ministri, quelli sono quello che sono, certo Di Maio agli esteri fa un po’ ridere, come d’altra parte la De Micheli ai Trasporti o Guerini alla difesa e Bellanova all’Agricoltura, ma non si può dire che esistessero molte migliori alternative. Di re taumaturghi in giro ce ne sono pochi. No, non mi riferisco alle persone dei ministri quando dico di nutrire poche speranze. Anzi, di “disperare”. Intendo, quando parlo di protagonisti, le forze politiche, i soggetti collettivi che sono in campo, partiti o movimenti che siano. Non ce n’è uno, dico uno, che sappia chi (o che cosa) esso sia. Che abbia una qualche idea della propria identità condivisa. Che sia in grado al proprio interno di operare una sintesi (la famosa “sintesi” di cui si nutriva la retorica di partito nel tempo in cui ancora i partiti esistevano) perché si condivideva quantomeno un orizzonte di valori identificanti o di denominatori comuni consolidati nel tempo (un “orizzonte”). Questi player, che fanno quotidianamente il gioco e quotidianamente lo disfano – intendo i partiti, i gruppi parlamentari ecc. – sono tutti nello stesso tempo uni e bini, o trini. Abitano involucri che non contengono liquidi omogenei, e che alla prima scossa si scompongono come l’olio e l’acqua. Nessun leader può parlare senza temere di essere in un nanosecondo smentito da uno dei “suoi”. Nessuno di loro può assumersi responsabilità che vadano oltre il tempo di un telegiornale. Ognuno, a ogni mano del gioco, marca stretto più il proprio vicino che il proprio avversario, anche quando ci si trova nell’area di rigore.
Non solo. Nessuno di loro, inteso come entità collettiva, forma organizzata, “soggetto politico”, è in qualche misura “stabile”. Questi che si muovono erranti sui nostri schermi, evocando “progetti”, programmi, schieramenti, entrando e uscendo da Montecitorio o Palazzo Madama, occupando settori degli emicicli e scambiandosi invettive da un capo all’altro dell’Aula, danno in realtà l’impressione di essere tutti, come dire?, in transito. Mutanti senza una meta, potremmo chiamarli. O “transumanti” (come “in terra d’Abruzzo” i pastori di D’Annunzio). Tutti, non solo i gregari. Anche i capi. Martedì, nel comunicare i tanto sospirati risultati del voto dei “militanti” sulla piattaforma Rousseau, Di Maio ha insistito sul concetto di stabilità, garantito dal suo movimento, generando in chi lo ascoltava ed era dotato di un po’ di memoria, una vertigine: quelli che erano nati per cambiare tutto si candidavano ora al ruolo di garanti della stabilità, come fossero la DC di De Gasperi. Un “mondo alla rovescia”. E d’altra parte lui, “Capo Politico” del movimento, era appena stato ampiamente richiamato all’ordine dal suo “Garante” sul Blog delle Stelle, e deve guardarsi le spalle dai vari Di Battista, Paragone e dallo stesso Casaleggio. Oppure prendiamo Zingaretti, segretario di un partito di cui non controlla i gruppi parlamentari in mano al rottamatore di se stesso Renzi, tanto che appena Salvini staccò la spina al proprio governo lui si era affrettato a invocare le elezioni “subito”. E’ il proprietario dell’involucro ma non ne possiede il contenuto: quei deputati e senatori che a suo tempo Matteo Renzi, chiuso nel suo ufficio al Nazareno, nominò al posto del proprio cavallo e che potrebbero seguirlo quando e se il Capo decidesse di staccare la spina al suo Segretario e all’avvocato Conte e, scampato il pericolo di scomparsa se si fosse votato domani, farsi il proprio di involucro… E d’altra parte il Pd, fuori dal cerchio stretto della rappresentanza parlamentare e delle residue amministrazioni locali – fuori dal campo sempre più separato dal Paese delle Amministrazioni – che cos’è? Un partito identificatosi a lungo con le schiere dei winners della globalizzazione e radicato prevalentemente nelle enclaves residenziali dei grandi centri che ora scopre le periferie e le fasce deboli, di sofferenza sociale, senza tuttavia nessuno dei propri a presidiare quei territori.
Lì, in quel territorio sociale “selvaggio”, sempre meno conosciuto dalle forze politiche tradizionali, fuori dalle mura del Palazzo, sta accampato l’esercito di ventura del Capitano, la Lega di Matteo Salvini con la sua protesi nera di FdI, destinata probabilmente a perdere di potenza come l’uragano Dorian man mano che si allontana dalla sua fonte di energia e non può più contare sul “carisma d’ufficio” che derivava a quello che rivendicava i “pieni poteri” dall’essere l’uomo forte del Ministero di polizia. E tuttavia pronta a capitalizzare su ogni errore dell’ex amico Conte e dei vecchi nemici Pd, consapevole che la pancia del Paese resta torbida e incattivita.
Proprio per questo, al nuovo governo chiederei poche cose ma chiare. Mi accontenterei di tre:
1. Mettere in sicurezza il Paese dagli assalti alla Costituzione varando subito una riforma elettorale proporzionale pura, l’unica in grado di impedire a chiunque di “mettere le mani” sull’ordinamento democratico nato dalla Resistenza;
2. Sterilizzare il decreto sicurezza depurandolo dai suoi aspetti più inumani e palesemente illegittimi costituzionalmente.
3. E, infine, tentare di durare con questo Parlamento fino all’inizio del 2022, quando si eleggerà il successore di Mattarella.
Non sarà facile.
Una versione più breve dell’articolo è stata pubblicata sul Manifesto del 5 settembre
col titolo Si potrebbe ricominciare da tre
Perché una versione più breve? Questo articolo merita di essere letto da cima a fondo. Spero tanto che facciano la riforma elettorale… se riflettono conviene a noi quanto a loro
Bravo Marco. Sono in sintonia.
Analisi lucida e puntuale.