Le Havre-Genova: chiudere i porti, ma alle armi

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L’8 maggio scorso il cargo Yanbu (di proprietà di Bahri, compagnia saudita di trasporto marittimo, controllata al 20 per cento dal gruppo petrolifero Saudi Aramco), proveniente da Anversa con un carico di munizioni, non ha potuto attraccare al porto di Le Havre (Normandia) ed è rimasto ancorato a 25 chilometri dalla costa. Il giorno seguente, a fianco dei dockers e tra le insegne levate della Confédération générale du travail, c’erano esponenti della Lega per i diritti dell’Uomo e del Movimento per la pace, membri de La France insoumise e dell’inossidabile PCF, oltre a rappresentanti dei Verdi. Il blocco era collegato alle responsabilità dell’Arabia Saudita nel conflitto con lo Yemen, scoppiato nel marzo 2015 e che finora ha provocato 233.000 morti, 140.000 dei quali bambini sotto i 5 anni (dati UNDP). I manifestanti criticavano anche l’atteggiamento di Emmanuel Macron, che assicurava di avere la «garanzia» che le armi e gli altri dispositivi di produzione francese «non sarebbero stati impiegati contro i civili». Due settimane dopo, il 21 maggio, la Yanbu è giunta nel porto di Genova. Anche qui lo sciopero dei lavoratori ha impedito il carico di materiale bellico. Questa la testimonianza di uno dei lavoratori:

«Alle 6 in banchina!», ci si era detti. E così è stato.

Lavoro nei Rimorchiatori, un’azienda che assicura un importante servizio all’interno del porto, e sono delegato CGIL dei lavoratori della mia azienda.

La mobilitazione di lunedì 21 maggio ha ragioni evidenti e mi auguro che possa costituire un punto di partenza. La protesta collettiva di Le Havre ha fatto da detonatore, anche se la chiusura dei porti al transito di armi è oggetto di una discussione che non è nata ieri. Da parte sindacale, soltanto la CGIL ha aderito alla manifestazione. La CISL e la UIL si sono dissociate, diramando un comunicato piuttosto opportunista, in cui si opponeva la «mancata evidenza di carichi pericolosi o armi da imbarcare» e, in riferimento critico alla manifestazione, la natura «strumentale» dello sciopero, indetto «senza preavviso contrattuale». La CISL ha parlato di «interessamento politico, non sindacale». Per carità, è certamente un’azione che ha il suo valore politico, anche a livello di partiti e movimenti… Come potrebbe essere politicamente neutra una questione relativa a una guerra in cui sono coinvolte anche le nostre finanze pubbliche? Viviamo un momento socialmente drammatico, e chiudere i porti alle armi aprendoli alle persone rappresenta un ulteriore messaggio da cogliere. La gravità della situazione è sotto i nostri occhi: si sta cercando di negare tutela ai diritti umani.

Dopo Le Havre, venerdì 18 maggio c’è stata un’assemblea molto partecipata alla “Sala chiamata” del porto. Erano presenti i delegati della CGIL, membri del Collettivo autonomo lavoratori portuali (CALP) e i delegati della Compagnia unica lavoratori merci varie (CULMY), ed è stata presa la decisione. Io non ho partecipato all’assemblea. Come Rimorchiatori, svolgendo un servizio tecnico essenziale per il porto e per la sicurezza dell’approdo, abbiamo non pochi problemi a scioperare e occorre, di volta in volta, presentare la richiesta alla prefettura… Ma non c’è stato il tempo, così abbiamo preso parte a un’astensione dal lavoro organizzata un po’ fuori dagli schemi. Facendo passaparola ‒ con il fine settimana di mezzo non è stato facile ‒ ci siamo ritrovati sul posto quasi in concomitanza con l’attracco della nave. Il punto di raccolta era al varco di Ponte Etiopia, mentre il presidio vero e proprio era all’interno, davanti ai cancelli del pontile (Ponte Eritrea – Genoa Metal Terminal), dov’era ormeggiata la nave. Più passava il tempo, più gente arrivava. Pioveva, non ha mai smesso, ma non ha funzionato da deterrente: ho preso l’acqua più che volentieri! Abbiamo presidiato fino al termine dell’incontro in prefettura, quando si è deciso che i generatori non sarebbero stati imbarcati. Sono stati presi e trasportati fuori, in un deposito. Pur se per noi dei servizi essenziali la partecipazione è stata minima, ci tenevamo a essere presenti. Tra quelli fuori dal turno, c’erano anche alcuni addetti agli ormeggi. Poi c’erano altre realtà, addirittura sono capitato vicino a un gruppo di boy scout: una situazione inedita, ma positiva! Ho visto portavoce di Amnesty International e pacifisti. Era un presidio molto variegato. La nave è ripartita la sera intorno alle 22.30 facendo rotta direttamente su Alessandria d’Egitto, dove fa tappa prima di imboccare il Canale di Suez.

Sono almeno tre anni che vedo arrivare in porto queste navi. Non vengono spesso, ma almeno 3-4 volte l’anno la Yanbu o le sue “sorelle” fanno la loro comparsa. Non è una novità che trasportino armi caricate a Genova o in altri porti europei. Già due anni fa era nata una discussione tra colleghi intorno alla circostanza se, come comandante di un rimorchiatore, non volendo partecipare a un’operazione che ritengo contraria ai principi di umanità, posso avvalermi dell’obiezione di coscienza. Il dibattito si è risolto negativamente, purtroppo. Pochi sono sensibili al tema; molti non si pongono nemmeno la domanda. «Dobbiamo rimorchiare, punto», dicono. Ci sono ambiti, poi, in cui prevale il mero interesse commerciale, la prospettiva di guadagno derivante dal carico di un pezzo simile ai generatori targati Teknel rimasti a terra lo scorso lunedì. Dal lato di chi si oppone, c’è anche la questione più pragmatica della sicurezza di chi lavora in porto e maneggia un certo tipo di merce.

Per chi ‒ come me ‒ è contrario all’incremento dell’industria bellica, i dipendenti di una fabbrica di mine potrebbero essere sicuramente reimpiegati in altro modo. Il ricatto occupazionale è una logica che fa presa, ma c’è un limite alla preminenza del capitale. Tra CULMV, CALP e CGIL, siamo compatti su questo punto. Lunedì ho visto due responsabili dell’Autorità portuale che premevano affinché la merce sospetta destinata alla Yanbu fosse fatta uscire dal varco e portata altrove. Anche il loro attivarsi per far sì che si concludesse questa operazione di “non-imbarco” è un segnale. Lo ripeto: vorrei che fosse l’inizio di una presa di coscienza più forte; anche qui occorre un processo di sedimentazione, ma a partire dalla traduzione dei discorsi di principio in azione comune.

Essere rappresentati da una forza sindacale capace di svilupparsi su scala europea, è un’esigenza del presente. Sono ottimista sul fatto che si possa sviluppare una rete organizzata in diversi Paesi, capace di contrastare le logiche finanziarie che calpestano i diritti essenziali delle popolazioni coinvolte in un conflitto. Sto seguendo gli sviluppi dell’ETF, il sindacato europeo dei trasporti, a cui sono affiliati vari sindacati nazionali. Ad oggi, ritengo sintomatico il fatto che dai lavoratori di Le Havre ci sia stato un passaggio di informazioni utili a permettere a varie realtà portuali di riunirsi. In ogni caso, sarà essenziale adottare un approccio più ampio e partecipato possibile a livello internazionale».

Sullo sfondo della mobilitazione all’interno dei porti “aperti alle persone e chiusi alle armi”, si accostano tre fatti, tra loro collegati.

Il primo interessa la futura agenda politica dell’Unione europea ed è relativo all’incremento del Fondo europeo per la difesa creato nel 2017, caldeggiato da 7 grandi gruppi – tra cui MBDA, Airbus e l’attuale Leonardo (Finmeccanica): un argomento disertato in campagna elettorale, ma assai concreto per i neodeputati di Bruxelles, chiamati a esprimersi il prossimo autunno sull’approvazione del secondo piano di bilancio. Considerati nel loro complesso, gli Stati membri si posizionano al secondo posto nel mondo per spese militari. Con un comunicato stampa del 20 febbraio scorso, la Commissione europea ha reso noto un parziale accordo istituzionale, raggiunto sulla scorta di una sua proposta datata 13 giugno 2018, che prevede lo stanziamento di 13 miliardi di euro al Fondo, a copertura del periodo 2021-2027. Lo scopo di assicurare all’Unione, sul piano internazionale, un ruolo più forte e autonomo di garante della sicurezza e della difesa dei suoi cittadini (prevenzione delle crisi e protezione dalle minacce esterne) si inserisce in una prospettiva di crescita e competitività industriale, sviluppo tecnologico, nonché di aumento dell’occupazione nei settori produttivi interessati. Intanto, per il biennio 2019-2020, in marzo è stato approvato dalla Commissione un programma di co-finanziamento di progetti industriali per la difesa comune di 525 milioni di euro, comprendenti l’Eurodrone e lo sviluppo di nuove tecnologie in diversi ambiti, in particolare cibernetica, intelligenza artificiale e comunicazioni radio. Si tratta del primo progetto industriale “comune”. L’innovazione e lo sviluppo di armi intelligenti saranno al centro dell’approvazione dei nuovi finanziamenti, con un difficile bilanciamento tra le iniziative già assunte, le pressioni dei gruppi interessati e le prerogative assicurate al Parlamento e al Consiglio dai trattati (TUE, artt. 41 e 42, e Trattato di Lisbona, con una procedura di bilancio che rafforza il ruolo del Parlamento).

Il secondo fatto è la frattura esistente tra la politica commerciale sviluppatasi, nei diversi Paesi, con il potenziamento del comparto della produzione militare (soprattutto dopo il 2001), e il sistema giuridico dei limiti all’iniziativa dei governi e delle garanzie (internazionali, nazionali ed europee) preposte a tutela dei diritti fondamentali. Il Trattato sul commercio di armamenti (          ATT), ratificato dall’Italia nel 2013 (e in vigore dal dicembre 2014), vieta agli Stati parte di autorizzare esportazioni che comportino o facilitino, oltre a fattispecie quali il genocidio e i crimini contro l’umanità (art. 6), «gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e dei regimi internazionali di protezione dei diritti umani» (art. 7). In una Posizione comune adottata dal Consiglio UE alla fine del 2008, a questi criteri si aggiunge il «mantenimento della pace, della sicurezza e della stabilità regionali»: le licenze di esportazione saranno rifiutate da uno Stato membro se esiste «un rischio evidente che il destinatario previsto utilizzi la tecnologia o le attrezzature militari da esportare a fini di aggressione contro un altro Paese» (art. 2). Nel nostro Paese il ripudio della guerra contenuto nella Carta fondamentale è richiamato dalla legge n. 185/1990, approvata grazie alle energie di un’ampia parte della società civile, schierata contro la vendita di armi all’Iraq durante la prima Guerra del Golfo. La legge vieta di esportare sistemi militari «verso Paesi la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11 della Costituzione» e «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa» (legge n. 185/1990, art. 6, comma 1, lett. d). Peraltro, i recenti governi sembrano considerare il solo divieto previsto per i Paesi sotto embargo ‒ internazionale o europeo ‒ delle forniture belliche (ATT, art. 6).
Nessun governo nazionale ha dato seguito a una significativa Risoluzione del febbraio 2016, per mezzo della quale il Parlamento europeo invitava l’Alto rappresentante UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini ad «avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita». A distanza di un triennio, nuove richieste provenienti da Bruxelles si sono arenate in Commissione esteri, nonostante il 28 dicembre scorso il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia affermato la contrarietà del Governo italiano alla vendita di armi a Riyad. Sulla scorta della Posizione comune sopra citata, il 4 ottobre 2018 il Parlamento europeo prendeva atto che «alcuni Stati membri hanno interrotto la fornitura di armi all’Arabia Saudita e ad altri membri della coalizione a guida saudita nello Yemen a causa delle loro azioni». È il caso di Germania, Olanda, Belgio, Norvegia e Finlandia, «mentre altri» ‒ come Francia e Italia ‒ «hanno continuato a fornire tecnologia militare». Ci sono Stati membri che «non sembrano tenere conto del comportamento del Paese di destinazione e dell’uso finale delle armi e delle munizioni esportate; […] tale disparità nella prassi rischia di compromettere l’intero regime europeo di controllo delle armi» (punto 13). Nella risoluzione si parla di export consentito per categorie comprendenti «navi da guerra utilizzate per realizzare il blocco navale imposto allo Yemen, […] aeromobili […] bombe […] che sono state fondamentali per la campagna aerea, contribuendo al deterioramento della situazione umanitaria e dello sviluppo sostenibile dell’intero paese e alle attuali sofferenze della popolazione yemenita» (punto 14). Si avverte, inoltre, la necessità di arrivare – con un ritardo di 2 anni ‒ all’imposizione di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita (punto 11) e all’attivazione di un «meccanismo sanzionatorio nei confronti degli Stati membri che non rispettano la Posizione comune» (punto 12).

Il terzo e ultimo fatto è la risposta spontanea all’allontanamento del discorso politico dalle “collettività” intese come insieme di interessi, ma anche di coscienze. Dalla Normandia al capoluogo ligure, il boicottaggio dell’imbarco di armi da parte dei lavoratori portuali ha riportato alla luce due evidenze: che l’economia, per funzionare, non dipende esclusivamente dalle commesse già stipulate, né da interessi meramente settoriali; che l’esercizio di un diritto costituzionale ha avvicinato lo sciopero (art. 40 Costituzione) alla difesa della «libertà degli altri popoli» tutelata dalla Carta del ’48 (art. 11) e dai trattati internazionali ratificati dall’Italia (dalle Convenzioni di Ginevra all’ATT).

La mobilità di armi e di persone è indirizzata dalla geopolitica attraverso assi e linee di forza. L’asse Nord-Sud segue, per il mercato della guerra, direttrici in discesa a senso unico verso zone di conflitto. Le persone, invece, trovano uno sbarramento sulle sponde Mediterranee e del Sahara, “mare” asciutto delimitato a Sud dal Sahel. Questo scenario serve a tracciare una linea di forza: le armi prodotte e vendute dai Paesi ricchi (USA e UE in testa) alimentano conflitti che producono milioni di vittime e nuove migrazioni. La linea di forza si mantiene, in questo caso, orientata da Nord a Sud, aumentando l’asimmetria tra i Paesi dei due emisferi nell’interesse delle grandi lobby e della corsa agli armamenti.
Il riscatto economico delle regioni povere, dove un grande gruppo estero può decidere di fissare la sede di una sua azienda, è la premessa logica di una retorica centrata sull’opportunità occupazionale: le armi sono prodotte dove c’è disoccupazione, come nel caso di Domusnovas, comune del Sulcis-Iglesiente, in cui si trova lo stabilimento di RWM Italia, società del gruppo tedesco Rheinmetall Defence con sede legale a Ghedi (BS). Dalla RWM partono le testate destinate a Riyad. Forte di un’amministrazione comunale favorevole alla presenza dello stabilimento ‒ che oggi dà lavoro a circa 100 operai in una regione altrimenti depressa ‒, l’Amministratore delegato Fabio Sgarzi nel 2018 sosteneva che «la parola “riconversione” è totalmente inappropriata, non esiste alcuna possibilità di trasformare i nostri impianti e riutilizzare le tecnologie di cui disponiamo, che servono esclusivamente per un certo tipo di produzione. Due le strade: o si va avanti nella produzione di munizionamenti o si chiude». Sulla destinazione delle bombe fabbricate, Sgarzi ha precisato che: «I tempi in cui avvengono le forniture e il loro utilizzo sono totalmente slegati. Solitamente i destini dei nostri prodotti sono i magazzini dove possono essere conservati anche per decenni».

La scintilla di Le Havre si è riaccesa sotto la pioggia di Genova. Dall’ambiente operaio arriva un segno inequivocabile: un segno di solidarietà, ma anche un affronto alle linee di forza e alle loro “ombre”, che ne rivela i paradossi come farebbe un “agente di contrasto”. Quello che è accaduto nei porti è, certamente, un quarto fatto e, forse, non è un caso che il suo teatro siano stati due luoghi di approdo: il contrasto alle linee di forza (e ai rapporti che assicurano) si produce tra la terraferma e un mare solcato da armi che arrivano prontamente a destinazione e da persone prive di status che affogano per un “no”. Il porto è un confine labile. Ed è proprio da tale confine, fonte di nuovi approdi indesiderati, che il discorso sui diritti umani può ripartire.

Gli autori

Mosè Carrara Sutour

Mosè Carrara Sutour è giornalista freelance con una formazione di ricerca in scienze sociali. Si occupa di migrazioni e cittadinanza, diritti delle minoranze, pratiche di resistenza civile e accesso alle risorse in aree di crisi.

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