Con il carcere non si rieduca

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“Quello che non ho”, verrebbe da dire con le parole di Fabrizio De Andrè.

I decreti legislativi 121, 123 e 124 del 2 ottobre 2018 – pubblicati il 26 ottobre in Gazzetta Ufficiale – costituiscono il vuoto precipitato normativo della ormai famosa riforma penitenziaria, ripudiata dal partito democratico e isterilita dall’attuale maggioranza di governo, interessata a portare a compimento il progetto di esecuzione penale demagogico e carcerocentrico del “Contratto per il governo del cambiamento”.

Si tratta di una riforma scolpita per via di levare, ma il risultato non è rappresentato dalle forme pure di Michelangelo: a forza di togliere è rimasto un simulacro di riforma, benché questo termine compaia nei titoli dei due decreti dedicati rispettivamente all’ordinamento penitenziario e alla vita e al lavoro in carcere (i nn. 123 e il 124, mentre il 121/2018 ha ad oggetto l’esecuzione delle pena nei confronti dei minori).

Amministrazione, magistratura e avvocatura dovranno assumersi – se avranno la voglia e il coraggio di farlo – il compito di implementare al massimo la portata di quel che di positivo è stato conservato dell’originario impianto: una migliore organizzazione dei presìdi di tutela della salute dei detenuti (in termini di responsabilizzazione del servizio sanitario nazionale, di tempestività delle cure e di continuità rispetto ai trattamenti ricevuti all’esterno), una normativa antidiscriminatoria più cogente, un irrobustimento del principio di prossimità geografica della pena al luogo nel quale si svolge la vita relazionale e affettiva del condannato.

Non vi è dubbio, tuttavia, che questo aggiornamento dell’ordinamento penitenziario colpisce per quello che manca.

L’aspetto più grave riguarda la rinuncia al rafforzamento delle alternative al carcere e all’ampliamento dei presupposti delle misure di comunità, nonché l’abbandono della revisione del catalogo dei reati ostativi alla fuoriuscita dal circuito detentivo. L’attuale maggioranza politica, del resto, coltiva l’idea che il crimine sia una malattia (la castrazione chimica di recente invocata da Salvini nei confronti degli aggressori sessuali si inserisce in questo filone) e che per evitare il contagio l’unica terapia idonea sia chiudere i condannati all’interno delle case circondariali per tutta la durata della pena, salva la possibilità, riservata a una ristretta schiera di privilegiati, di fare un po’ di convalescenza all’esterno. Si tratta di un’idea vecchia e pericolosa anche in punto di utilità sociale. Lo ha ben scritto Andrea Pugiotto, citando Gustav Rabruch: rieducare il soggetto antisociale alla socialità attraverso la chiusura in spazi asociali è come insegnare a nuotare fuori dal mare.

Impressiona che una certa consapevolezza del fallimento di questa ricetta (quanto meno sotto il profilo del rapporto costi/benefici) sia maturata persino negli Stati Uniti, campioni dei processi di incarcerazione. Per la prima volta, in America, i numeri della popolazione detenuta sono i diminuzione e lo stesso presidente Trump si avvia a firmare una riforma penitenziaria che incrementa il ricorso alle misure alternative («votate la riforma, e io la firmo!» si legge in un suo tweet). Alle nostre latitudini, invece, i tassi di imprigionamento continuano a crescere e ad oggi gli istituti di pena ospitano 59.820 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 50.598 posti ed effettiva di soli 46.000 posti.

Il rifiuto di compiere un passo avanti sul terreno delle misure e delle pene alternative, di fatto, è in realtà un salto indietro dannoso per i diritti fondamentali dei condannati e per le prospettive di sicurezza del nostro Paese. Con quei numeri in costante aumento le carceri – indipendentemente da quante se ne costruiranno – corrono il rischio di diventare in modo definitivo riserve di ostilità e risentimento sociale.

Per capire ancora meglio il livello di arretramento di questa pseudoriforma può essere utile evidenziare alcune lacune particolarmente significative e simboliche, soprattutto se confrontate con recenti e drammatiche emergenze.

I due bambini uccisi dalla loro madre nell’istituto femminile di Rebibbia rappresentano l’ultima tragica e umanamente insostenibile conferma di un dato pacifico: in carcere si muore. Alla data del 21 ottobre 2018, le morti complessive sono 114, delle quali 50 per suicidio (Morire di carcere: dossier 2000-2018 a cura di Ristretti Orizzonti). A fronte di un quadro così disperante, in gran parte ascrivibile a sofferenza psichica originaria o indotta, dalle novelle legislative è sparito ogni intervento di prevenzione, cura e gestione del disagio psichico e della malattia mentale. Oltre a essere stata eliminata la previsione della costituzione di dipartimenti di salute mentali adeguati alla capienza di ogni istituto, è venuto meno ogni riferimento alla istituzione di sezioni a esclusiva gestione sanitaria per pazienti psichiatrici. Allo stesso tempo, la proposta originaria è stata amputata della parte relativa alle misure alternative terapeutiche per sofferenti psichici e della possibilità, di contro all’attuale divieto, di concedere il differimento facoltativo della pena per grave infermità psichica (nonostante sul divieto in questione penda questione di legittimità costituzionale).

Ancora: a fronte dell’innegabile questione tortura, dalla disciplina relativa alla visita medica “di primo ingresso” dei detenuti è stata rimossa la disposizione relativa alla documentazione fotografica dei segni che facciano apparire che la persona possa aver subito violenze e maltrattamenti, nonché quella relativa alla comunicazione alla magistratura di sorveglianza di tale documentazione. Si è persa un’occasione per chiedere scusa in modo progettuale, politico e concreto a Stefano Cucchi e alle altre vittime della violenza dello Stato.

Occorre poi aggiungere, sotto altro profilo, che la conclusione del processo riformatore del diritto penale e penitenziario scaturito dalla legge delega n. 103/2017 sembra inasprire la funzione di selettore sociale che il carcere non ha mai dismesso.

Proviamo a mettere in fila una serie di interventi: innalzamento delle pene per i reati predatori; sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo e secondo grado (che colpirà maggiormente gli autori di quei reati di semplice accertamento); mancato ampliamento del ricorso alle misure alternative; eliminazione di ogni intervento di sostegno alla marginalità sociale sia nel percorso intramurario sia in quello extramurario (come le dimore sociale, ad esempio), mancata abrogazione delle residue disparità che riguardano i recidivi. La cornice complessiva che ne è esce è quella di leggi in grado di inchiodare per molti anni il carcere al ruolo di contenitore della povertà colpevole.

Da ultimo, una constatazione e un appello all’impegno. Iniziamo dalla prima: il processo riformatore, a partire dagli stati generali dell’esecuzione penale, ha fallito nel suo obiettivo primario, ovvero quello di creare nell’opinione pubblica un’idea di penalità penitenziaria diversa da quella schiacciata sulla vendetta. Sono molteplici i fattori che hanno agito in questa direzione e non è necessario ricordarli in questa sede. La chiamata all’impegno è conseguenza diretta di questa constatazione. Occorre ripartire di qui per affrontare il deserto.

Gli autori

Riccardo De Vito

Riccardo De Vito, è giudice al Tribunale di Nuoro. Già presidente di Magistratura democratica, è componente del comitato di redazione della rivista Questione giustizia.

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