Il Csm, la magistratura, la politica

Volerelaluna.it

01/10/2018 di:

Comincio dal personale, che, come si diceva un tempo, è politico. Essendo stato, in anni lontani (dal 2006 al 2010), componente del Consiglio superiore della magistratura, mi è venuto spontaneo chiedermi, mercoledì scorso, come avrei votato, se mi fossi trovato a farne parte oggi, nell’elezione del vicepresidente. Certo non avrei votato per David Ermini, l’avvocato fiorentino di stretta osservanza renziana, scelto, infine, dalla maggioranza consigliare. Non lo avrei fatto per la sua estrazione marcatamente partitica non accompagnata da un’autorevolezza tale da garantirne l’affrancamento dal marchio di fabbrica e l’assunzione di un ruolo super partes, come accaduto, grazie alla loro statura, a politici quali Giovanni Galloni o Virginio Rognoni che del Consiglio sono stati, in altra epoca, ottimi vicepresidenti. Ma non so dire se avrei votato per un altro candidato o se mi sarei rifugiato nell’astensione, scelta certamente poco onorevole ma forse, a ben guardare, priva di alternative.

Questa incertezza, all’apparenza paradossale, è in realtà il portato di una situazione politica e istituzionale messa nudo dai primi passi del nuovo Consiglio.

Partiamo dall’elezione di Ermini, avvenuta alla terza votazione con un Consiglio spaccato a metà. Il nuovo vicepresidente, infatti, ha riportato 13 voti, contro gli 11 di Alberto Maria Benedetti, professore genovese di diritto privato in quota Cinque Stelle. Hanno votato a suo favore, oltre all’interessato, i dieci componenti togati di Magistratura indipendente e di Unità per la Costituzione (cioè dell’area di destra e di centro di pubblici ministeri e giudici), il presidente della Cassazione e il procuratore generale della stessa, mentre si sono espressi per Benedetti i sei magistrati facenti capo ai gruppi di Area e di Autonomia e indipendenza (cioè la componente progressista e la nuova formazione che fa capo a Piercamillo Davigo) e i cinque componenti laici designati da M5Stelle e Lega. Si sono, invece, astenuti i due laici indicati da Forza Italia. La divisione interna al Consiglio ha avuto riscontri corrispondenti nelle posizioni della politica e dell’informazione: hanno esultato il Pd (i cui deputati sono scoppiati in un applauso all’arrivo della notizia in aula) e la destra (Un buon colpo alla deriva manettara, ha titolato Il Foglio) mentre sono smodatamente insorti i 5Stelle, per bocca del vicepresidente del Consiglio Di Maio («L’elezione di questo renzianissimo deputato fiorentino del Pd è incredibile! Ma dov’è l’indipendenza? Il Sistema è vivo e lotta contro di noi») e il ministro della giustizia Bonafede («La maggioranza del Csm ha deciso di fare politica»).

Il voto del Consiglio e le conseguenti reazioni evidenziano alcuni snodi fondamentali.

Primo. Il sistema politico – tutto il sistema, compreso il M5Stelle – si è mosso, in questo caso, secondo il principio in forza del quale «tutto cambia perché nulla cambi». L’elezione dei membri laici del Consiglio, per cui la legge istitutiva richiede la maggioranza dei tre quinti del Parlamento, è avvenuta secondo il più acritico accordo spartitorio. Non è certo la prima volta, ma il tanto evocato vento del cambiamento avrebbe ben potuto portare, almeno, alla designazione di personalità di alto profilo e di conclamata autonomia di giudizio, come sarebbe naturale per un organo di rilevanza costituzionale. Invece i componenti, eletti con l’allegro concorso di tutte le forze politiche, sono stati un esponente dell’apparato del Pd, alcuni avvocati di provincia o a fine corsa e tre docenti sconosciuti ai più, tanto dal far dire a uno dei sostenitori di Benedetti di averlo votato «perché sembrava il più preparato» (Il Fatto quotidiano, 28 settembre). Inutile dire che il fatto non è casuale ma rispondente al fastidio bipartisan della politica verso i corpi intermedi e gli organi di garanzia, guardati con sospetto e messi in condizione di non poter interloquire autorevolmente. Così, consapevolmente e con il concorso di tutto l’arco politico (vecchio e nuovo), si è svilito e depotenziato un organismo di grande rilievo che, in passato, ha avuto tra i suoi componenti personalità del calibro di Vittorio Bachelet, Giovanni Conso, Francesco Paolo Bonifacio, Carlo Smuraglia, Alessandro Pizzorusso e via elencando.

Secondo. In modo altrettanto unanime si è confermata, nella vicenda, una concezione proprietaria delle istituzioni. Anche qui non è la prima volta: basti pensare, nel precedente Consiglio, al transito diretto del vicepresidente designato Legnini da un banco del Governo a palazzo dei Marescialli, con modalità tali da far pensare a una sorta di commissariamento politico. Ma questa volta ci si è spinti più in là, sino all’esplicita rivendicazione di un diritto naturale della maggioranza politica a scegliere il vicepresidente del Consiglio, un diritto del tutto estraneo al modello costituzionale che ne prevede l’elezione ad opera dei componenti con un sistema di voto in cui, per dirla con un’espressione un tempo in voga, “uno vale uno”. Non basta. Il disegno di occupazione delle istituzioni che ispira questa rivendicazione si collega, per quanto riguarda la giustizia, a una pretesa ancor più insidiosa: quella di realizzare una omogeneità (spontanea o coatta) tra le scelte della giurisdizione e le convenienze della politica. Lo rivela, anche grazie alla corrispondenza temporale, il filo rosso che intercorre tra le scomposte reazioni odierne di Bonafede e Di Maio e le invettive leghiste di fronte all’esercizio dell’azione penale per la vicenda della nave Diciotti o al tentativo di recupero dei fondi pubblici illecitamente distratti da Bossi e sodali. Non consola – e, anzi, ancor più preoccupa – il fatto che si tratti di un disegno risalente, già perseguito da Berlusconi e Renzi.

Terzo. L’esordio del Consiglio è stato, infine, l’occasione per un attacco dei nuovi potenti (in ciò non diversi dai vecchi) alla magistratura politicizzata, indicata come un bubbone che inquina il corpo sano di giudici e pubblici ministeri silenziosi e laboriosi. Il (risalente) ritornello rivela appieno, qui, la sua strumentalità. Esso, infatti, da un lato ignora la natura e le funzioni del Consiglio superiore, ché un organo preposto a un’attività di governo è, per definizione, chiamato a scelte discrezionali comportanti valutazioni di merito lato sensu politiche. Dall’altro modifica continuamente il proprio bersaglio (fino a ieri la magistratura progressista, o Magistratura democratica tout court, oggi quella conservatrice) così svelando il vero oggetto della critica e dell’auspicata rimozione: non una politicizzazione di cui non si comprendono bene i termini ma le decisioni, i provvedimenti o i comportamenti sgraditi… In altri termini, ancora una volta, l’esercizio indipendente della giurisdizione.

Da questa situazione non sarà facile uscire in avanti, mantenendo e potenziando il modello costituzionale. Quel che è certo è che non se ne uscirà senza il concorso di giudici e pubblici ministeri che, da un lato, dovranno evitare di farsi intimidire ma, dall’altro, dovranno riflettere su se stessi, anche tenendo presente il richiamo di Marco Ramat, risalente agli albori di Magistratura democratica, a distinguere sempre «tra la grande politica della Costituzione, dove la magistratura deve impegnarsi, e la politica di partito, contingente, da cui la magistratura deve estraniarsi». Non sarà facile, come altra volta sottolineato, per una magistratura che conosce finanche una componente etero diretta da un magistrato in aspettativa già sottosegretario alla giustizia in quota Forza Italia e oggi parlamentare del Pd. Non sarà facile, ma è necessario.