Quando la legalità è un inganno

Volerelaluna.it

17/09/2018 di:

Se un ministro dell’interno inneggia al ripristino della legalità attraverso espulsioni, carcere e ruspe, un po’ di igiene culturale di parole e concetti si impone. Anche perché il linguaggio si intreccia, spesso, con la politica e il consenso.

Oggi tutti, in politica, invocano la legalità. Naturalmente denunciandone ad ogni piè sospinto la violazione da parte degli avversari. Lo fanno le forze di governo e quelle di opposizione e alcune (il Movimento 5Stelle tra queste) hanno addirittura trasformato il termine in parola d’ordine ritmata in centinaia di dimostrazioni. Non per caso, ma perché la legalità è considerata in maniera diffusa una regola fondamentale di convivenza e un fattore di democrazia tout court, sì che il suo richiamo è pagante anche in termini elettorali.

Tutti pazzi per la legalità, dunque, almeno a parole! Inevitabilmente – vien da dire – in una situazione del Paese segnata dal crollo dell’etica pubblica e dalla diffusione crescente di fenomeni come la corruzione, la strumentalizzazione a fini privati di uffici pubblici, la mercificazione finanche della funzione legislativa, la prevaricazione mafiosa, lo sfruttamento del lavoro altrui, l’evasione fiscale come metodo, la regola dei condoni, la pretesa di impunità per chi ha potere e molto altro ancora. Opporsi a questo illegalismo diffuso è, per gli onesti, un imperativo morale che ha come bandiera, appunto, la legalità, intesa come rispetto di regole elementari di convivenza e di rispetto del bene pubblico. Di più: in questa situazione la legalità cessa di essere un semplice riferimento etico per diventare uno snodo politico di univoca valenza democratica. Ciò è stato particolarmente evidente nell’età di Berlusconi, ma le cose non sono cambiate con il suo tramonto. E, del resto, il fenomeno nasce ben prima, come ci ricorda la nota intervista di Enrico Berlinguer del 28 luglio 1981 nella quale si afferma la centralità della legalità perché

la questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano.

Da decenni, dunque, tutti invocano la legalità e Salvini, da consumato esperto di comunicazione, cavalca la tigre. Superfluo dire che, intanto, la situazione sociale ed etica del Paese non cambia. Anzi peggiora. La responsabilità è, ovviamente, della politica e della società nel suo complesso. Ma un ragionamento sul senso della legalità può contribuire a evitare che essa si trasformi in una foglia di fico per la pratica del suo contrario.

Anzitutto la legalità non può essere usata come clava contro gli avversari politici ed essere, allo stesso tempo, interpretata per gli amici. O è veicolo di uguaglianza o, semplicemente, non è. Ma la realtà racconta un’altra storia. Quella di un partito “legge e ordine” che, avendo ottenuto finanziamenti pubblici indebiti per 49 miliardi di euro grazie a false documentazioni ed essendo stato condannato alle necessarie restituzioni, pretende di sottrarvisi assumendo che sono passati 10 anni, che il segretario politico del partito è cambiato e che quanto c’è in cassa è frutto di versamenti successivi al fatto (ragionamento che legittimerebbe, per esempio, Società Autostrade a sottrarsi alle pretese risarcitorie delle vittime del crollo del ponte Morandi cambiando amministratore delegato e sostenendo che i pedaggi pagati dopo il fatto non possono essere utilizzati a tal fine…). O quella di uomini di governo che stigmatizzano quotidianamente chi dorme sulle panchine o chiede l’elemosina in violazione di qualche ordinanza sindacale e considerano gli atti politici sottratti ai vincoli delle leggi nazionali e internazionali (sovvertendo criteri consolidati delle democrazie avanzate, come quello affermato dai giudici inglesi che convalidarono l’arresto nel Regno Unito addirittura di un capo di Stato estero come Pinochet). O quella di politici votati alla tolleranza zero che promettono lo sgombero degli stabili occupati da senza tetto o centri sociali dimenticando quelli occupati dai propri alleati e sostenitori. O, ancora, quella di governi che predicano l’uguaglianza dei cittadini e preparano condoni fiscali per evasori seriali e riduzione delle tasse per i più ricchi. È una prima ragione per diffidare del termine legalità o, quantomeno, per avvicinarvisi con prudenza.

Ma non c’è solo questo. Se si scende in profondità il concetto stesso di legalità si mostra più complesso di quanto non appaia a prima vista.

Primo. Legalità – si dice – è rispetto delle leggi e, conseguentemente, operare per la legalità significa far rispettare le leggi. Difficile contestare i fondamenti etimologici e concettuali della definizione (che ben si attaglia, del resto, a molte situazioni e comportamenti ordinari). Ma scavando, cioè dando applicazione ai princìpi, ci si accorge che la complessità del reale rende la definizione, quantomeno, insufficiente. Subito infatti si pone un problema: una concezione della legalità coerente con una impostazione democratica può prescindere dai contenuti della legge cui si chiede obbedienza? In termini più espliciti: è coerente con la dimensione di legalità di cui parliamo l’obbedienza rigorosa e acritica alla legge ingiusta? Alle leggi razziali, alla legge che prevede la pena di morte, alla legge che distingue gli uomini in liberi e schiavi? La risposta è intuitivamente negativa e rimanda al fatto che, nel nostro sistema, non c’è legalità al di fuori dei princìpi della Costituzione e delle grandi convenzioni internazionali del dopoguerra. Altrimenti c’è una parvenza di legalità o, addirittura, il suo contrario.

Secondo. Viviamo in un Paese in cui le leggi sono tanto numerose quanto violate. Perseguire la legalità significa dunque, inevitabilmente, definire gerarchie di valori e priorità di intereventi. Non tutto si può fare contemporaneamente e con lo stesso impegno di risorse e intelligenza. Occorre scegliere. Si può cominciare lottando contro le mafie o liberando le città dalla presenza “fastidiosa” di migranti e lavavetri, contrastando la speculazione edilizia e l’inquinamento ambientale o perseguendo chi protesta a tutela della salute propria e dei propri figli, impegnandosi per eliminare (o contenere) l’evasione fiscale oppure per sgomberare edifici abbandonati occupati da “contestatori” e via elencando. Inutile dire che la definizione del calendario degli impegni (e la connessa mobilitazione dell’opinione pubblica) è una scelta politica e non un vincolo giuridico. Ma c’è di più. Anche le modalità dell’intervento teso a ripristinare una legalità che si assume violata non sono automatiche. La corsa di ciclomotori in una strada urbana si può contrastare con multe pesantissime, con un controllo del traffico da parte di vigili in divisa, con la predisposizione sulla carreggiata di apposite bande tese a impedire una velocità eccessiva; lo sgombero di baracche abusive e pericolose si può effettuare con le ruspe o con i servizi sociali, con la polizia in assetto di guerra o predisponendo soluzioni abitative alternative; la legalità può essere imposta con la forza o perseguita con il confronto e la trattativa… Ancora una volta non si tratta di automatismi giuridici ma di scelte politiche.

Terzo. La legalità può essere vissuta e gestita come muro che separa gli “inclusi” dagli “esclusi” o come veicolo di inclusione di questi ultimi. La “tolleranza zero” non è senza alternative e di fronte a un “vetro rotto” (per riprendere una metafora in voga) non si deve far finta di niente ma si può rispondere con interventi repressivi e poliziotti o con interventi educativi e vetrai… Le semplificazioni non servono. La legalità è fondamentale, ma le politiche per attuarla possono essere veicolo di promozione sociale o fattore di discriminazione. E non è la stessa cosa.

Si può, a questo punto, sfatare un mito. La legalità, intesa come ossequio formale e acritico alle leggi vigenti (o, addirittura, ad alcune di esse: quelle che fanno comodo), non è un valore indiscutibile e indiscusso. Anzi. La modernità nasce con Antigone che, nella tragedia di Sofocle, viola l’editto di Creonte, re di Tebe, e dà sepoltura al proprio fratello, diventando per questo, nei secoli, simbolo di libertà e di lotta contro il sopruso. E – facendo un salto di due millenni – risuonano ancora forti le parole pronunciate il 30 marzo 1956 da Piero Calamandrei (costituente e giurista autorevolissimo) davanti al Tribunale di Palermo nell’arringa in difesa di Danilo Dolci: «Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami» (in D. Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio, Palermo, 2011, pp. 309-310).

C’è – e resta fermo – un discrimine etico e politico tra onesti e disonesti, tra buon governo e malaffare, tra trasparenza e poteri occulti, tra rispetto e sopruso. E in questo conflitto – superfluo dirlo – il richiamo alla legalità come valore di riferimento è importante e positivo. Ma occorre essere attenti a non trasformarlo in una copertura ipocrita della pura forza.