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17/11/2023 di: Marco Revelli
“Squadrismo istituzionale” l’ha definito il segretario della UIL Bombardieri. “Un attacco gravissimo del governo a un diritto fondamentale delle persone che lavorano”, ha aggiunto Landini per la CGIL. Ormai è chiaro che questa destra segnata dalla sua matrice neofascista va aggredendo, giorno dopo giorno, in forma sempre più aggressiva, ad ampio raggio, tutti i residui fondamenti della nostra democrazia, sociale e politica. Il diritto di sciopero, da una parte, come condizione prima del protagonismo dei lavoratori, e il primato del Parlamento come ambito privilegiato di formazione dell’indirizzo politico, dall’altra, erano le due grandi discriminanti – sul piano sociale la prima, su quello politico istituzionale la seconda – poste in Costituzione a segnare la discontinuità della nascente Repubblica democratica rispetto al precedente Regime fascista.
Il primo riscattava vent’anni di repressione violenta del movimento operaio, costretto alla subalternità e al silenzio prima con la distruzione delle camere del lavoro e lo squadrismo, poi con il Tribunale speciale, la polizia politica e la potenza dell’apparato statale. Il secondo contrapponeva al dispotismo monocratico e alla iper-personalizzazione del potere nella figura del Duce che aveva devastato la nostra vita pubblica, l’idea dell’esercizio collegiale e discorsivo della decisione politica, collocandone la sede deputata in un’assemblea legislativa a cui subordinare le diverse branche del potere esecutivo. Una Democrazia rappresentativa, appunto, e non esecutiva, o esecutoria.
Ora, con una impressionante sincronicità di tempi, il governo Meloni li attacca entrambi, ingaggiando al proprio interno una sorta di gara d’estremismo, tra la Presidente del Consiglio e il suo vice, in cui è difficile distinguere chi dei due sia più nostalgico della nostra peggiore storia. Tra il Ministro delle Infrastrutture che ingaggia un braccio di ferro con le due organizzazioni sindacali più rappresentative per tentare di costringerle al silenzio, ovvero a rinunciare al principale strumento in loro possesso per aver voce in un momento di estrema sofferenza sociale; e la Presidente del Consiglio che accelera i tempi di una riforma costituzionale sgangherata e distruttiva come quella del Premierato, e nel contempo riduce sistematicamente i margini di agibilità del dibattito parlamentare con il ricorso ai decreti legge e ai voti di fiducia, si è ingaggiata evidentemente una gara ferocemente regressiva diretta a stabilire quale sia l’anima più nera.
D’altra parte, che si stia assistendo a un attacco senza precedenti al nostro assetto democratico è dimostrato non solo dai contenuti ma anche dal metodo con cui questo viene condotto. Occupando e stravolgendo gli stessi organi di garanzia, per trasformarli in strumenti al servizio del Governo senza neppure cercare di salvare l’apparenza. Esemplare il ruolo giocato dalla “Commissione Garanzia Sciopero” in questi giorni, trattata da Matteo Salvini, come una propria dépendence, con il Ministro che ordina e l’organo che esegue, senza neppur tentare di dare al proprio verdetto una parvenza di fondamento giuridico.
Le precisazioni della sua Presidente per giustificare l’intervento a gamba tesa sullo sciopero di venerdì 17 al fine di limitarne dimensioni e durata e in particolare per contestarne la qualifica di “Sciopero generale” sono giuridicamente inconsistenti. Non esistono disposizioni di legge in materia a cui un tale verdetto possa appigliarsi né esistono precedenti nelle deliberazioni della stessa Commissione che ne giustifichino l’attuale posizione, contrariamente a quanto sostenuto. Per essere chiari: non si trovano norme nel nostro ordinamento che offrano una definizione formale dello “Sciopero generale” (non se ne vedrebbe d’altra parte la necessità essendo questo considerato in Costituzione come parte del più generale diritto di sciopero). Né è rinvenibile alcun “consolidato orientamento” della Commissione in materia, contrariamente a quanto affermato nella “sentenza” che contesta la natura di Sciopero generale della manifestazione del 17 e che impone il rispetto della doppia regola della “rarefazione oggettiva” e della “durata massima della prima azione di sciopero”. Chi si è preso la briga di spulciare tra le delibere della Commissione da quando essa esiste attesta che vi “si ritrovano diversi documenti relativi alle regole da rispettare, e alle deroghe previste, in caso di sciopero generale, ma non c’è nessuna indicazione univoca su che cosa debba intendersi per sciopero generale”. Nel dicembre del 2001, ad esempio, ci si riferiva a “scioperi che per estensione (un intero settore o intersettoriale), dimensione nazionale, potenziale partecipazione e impatto siano valutabili come sciopero generale”, limitando i requisiti per una tale qualifica alla dimensione quantitativa dei potenziali partecipanti, condizione presente con tutta evidenza nel caso attuale.
La verità è che il Governo Meloni e la sua maggioranza si sono costruiti una Commissione di garanzia composta in prevalenza da figure “amiche” (per legge le scelgono i presidenti di Camera e Senato, cioè Fontana e La Russa), senza nessuna attenzione al bilanciamento, da usare come clava nei confronti di azioni sindacali non gradite e in particolare di eventi come quello attuale che possano smentire l’immagine dell’Esecutivo e della sua Capa. Basta dare un’occhiata ai curricula dei commissari resi pubblici da molti organi di stampa per capirlo: su cinque membri tre hanno militato nell’estrema destra o hanno avuto rapporti di consulenza e di collaborazione con Giorgia Meloni (Peppino Mariano ha militato nell’organizzazione giovanile Fare Fronte insieme all’amico Fazzolari ed è stato consulente del Ministro per la gioventù tra il 2008 e il 2011) o con altri ministri leghisti (l’avvocato Tozzi è stato consulente del Ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana durante il governo giallo-verde, l’economista Reboani ha lavorato per Maroni al Ministero del Lavoro). Due, Bellocchi e Ghera, secondo La Stampa, sarebbero vicini ai leghisti Bagnai e Durigon (quello che, a proposito dei 49 milioni di euro spariti, ripreso senza saperlo da una telecamera, aveva detto che “Quello che fa le indagini, il generale della Guardia di finanza, lo abbiamo messo noi”). Sono nelle loro mani le sorti di uno dei diritti più qualificanti della nostra Carta costituzionale.
D’altra parte, di un uso spregiudicato, per usare un eufemismo, di istituti che dovrebbero essere super partes e che invece vengono piegati ai capricci della maggioranza, si era già avuto esempio con il caso del CNEL, organo costituzionale di rappresentanza sociale, affidato all’amico Brunetta e usato come ariete per colpire e possibilmente affondare ogni ipotesi di salario minimo.
Ce n’è abbastanza per suonare tutti i possibili campanelli d’allarme e le stesse campane a martello per chiamare a raccolta chi non intende assistere passivamente a questo scempio di democrazia.