L’egemonia della destra, ovvero la riduzione della cultura a propaganda

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Ne La condizione umana di Malraux, c’è un dialogo tra un pastore e un rivoluzionario. «Quale fede politica potrà spiegare il dolore umano?» chiede il primo. «Preferisco diminuirlo, che spiegarlo» risponde il rivoluzionario. Ecco, da un lato sono tempi in cui il nesso tra politica e dolore umano – nella sua forma più crudele, la barbarie – sembra poter essere l’unico argomento ragionevole di cui occuparsi. D’altro lato, sperimentiamo – lo faccio anch’io in questo istante, per esempio – l’impotenza delle parole. Cioè della pretesa (o forse della presunzione) di spiegare. A che serve spiegare ancora e ancora, se il dolore umano si accresce, anziché diminuire?

Eppure credo che dobbiamo ricominciare proprio da qui, dal chiederci perché abbiamo rinunciato alla battaglia delle idee e non sappiamo più cosa fare per trasformare il mondo. Non siamo più filosofi, ma non riusciamo nemmeno a essere rivoluzionari. C’è infatti un filo rosso che lega la politica estera a quella interna, e questo filo rosso si chiama propaganda.

Non stiamo assistendo sgomenti all’avanzare di una guerra, e poi di due guerre. Siamo davanti a una sostituzione della politica con la guerra, come se quest’ultima non fosse uno strumento della prima, ma l’unico suo strumento. Non crediamo più da tempo alla politica e dunque crediamo soltanto alla guerra. Probabilmente tanti intellettuali, soprattutto di sinistra, mi direbbero che in questo ritorno della guerra c’è invece un ritorno della politica e della “grande storia”. Può darsi, ma la politica che si inchina alla prassi dominante della guerra si accontenta di essere una forma della sovranità, non è più una forma della democrazia. Le guerre stanno plasmando di volto nuovo le istituzioni politiche: attizzando di nuovo i nazionalismi, demolendo ogni residua speranza del sogno europeo, rinnovando il bipolarismo muscolare della guerra fredda, trasformando l’ONU da gigantesca speranza in crisi a oggetto di scherno e di ostilità da parte di quelle che pure ci ostiniamo a definire democrazie occidentali (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/11/02/palestina-un-caso-di-genocidio-da-manuale-e-il-fallimento-dellonu/). Di tutta questa complessità non ci sono ormai che minime tracce, se non all’interno delle nostre “bolle” autoreferenziali. Meglio ancora: di questa complessità non è lecito più parlare nella discussione pubblica (le nostre bolle restano cose private, tutto sommato). Chi lo fa viene censurato o accusato di essere un estremista.

Mi è capitato per caso tra le mani un libro del 1969, pubblicato non da una casa editrice estremista e rivoluzionaria, ma da Einaudi. Il libro è di Maxime Rodinson e s’intitola Israele e il rifiuto arabo. Ecco una parte del testo contenuto in copertina: «Il conflitto ci appare così, essenzialmente, come la lotta di una popolazione indigena contro l’occupazione straniera del suo territorio nazionale. […] Israele si trova a confrontarsi col dilemma che alcuni gli avevano predetto. Come tenere sotto il proprio dominio le terre arabe conquistate? O lo Stato è democratico, o anche solo di tipo parlamentare-liberale: in questo caso gli arabi saranno presto in maggioranza, e sarà finita con il sogno di uno Stato ebraico; oppure gli arabi verranno trattati come cittadini di seconda classe, la discriminazione verrà legalmente istituita, fino a praticare una politica simile a quella del Sud Africa […]. Una guerra rivoluzionaria condotta contro Israele da comandos palestinesi con il sostegno più o meno dichiarato di certi stati arabi è indubbiamente possibile». Oggi delle parole del genere – che rappresentano alla perfezione la spiegazione di un intellettuale, non la rivendicazione di un rivoluzionario – non solo verrebbero forse pubblicate da pochissime coraggiose case editrici, ma verrebbero quasi certamente censurate dagli algoritmi dei social e biasimate se ricordate in altri contesti pubblici, dove vige la ferrea legge della propaganda.

Prendiamo, per la politica interna, il caso della finanziaria del Governo Meloni. Nonostante il tentativo di autorappresentarsi come destra sociale, la scelta è sempre la solita: tagliare le pensioni, definanziare la sanità, penalizzare i dipendenti pubblici (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/30/arridateci-la-fornero/). Ormai c’è un difetto di fantasia politica persino nelle forme con cui il capitale sceglie di accanirsi contro le classi impoverite. Si può dire che vi sia dietro queste scelte un disegno egemonico della cultura di destra? Non direi. C’è solo propaganda. Più propriamente, c’è anche qui una politica che si limita a riprodurre il giusnaturalismo artificiale del neoliberismo, con le sue leggi diventati dogmi di fede o leggi naturali senza che nessuno possa più contestarle o, semplicemente, proporre dell’altro. Quando ci preoccupiamo dell’egemonia culturale della destra, non dobbiamo pensare a Pino Insegno che sostituisce Fabio Fazio (e non solo perché Fabio Fazio non rappresenta certo una supposta cultura di sinistra). L’egemonia culturale della destra c’è da un pezzo e si chiama appunto giusnaturalismo artificiale del neoliberismo, di cui ovviamente per decenni il PD è stato sommo sacerdote. Ma noi, adesso, come facciamo a spiegare che essere contro i tagli alle pensioni non vuol dire far crescere il debito per tutti ma attaccare i privilegi di coloro che si arricchiscono senza freni? Come facciamo a spiegare che non è la guerra tra poveri che può limitare le diseguaglianze?

Eccolo il filo rosso. Un’ideologia assoluta che non ammette cultura, ma solo semplificazione e conformismo. Il neoliberismo è un processo di codificazione ideologica, molto più che economica. Ha naturalizzato alcuni codici di accesso al mondo e non è più possibile decodificare la realtà in altre forme, con altre scritture, con altre spiegazioni. Il codice della guerra serve a tornare indietro di decenni nelle relazioni internazionali; il codice della crisi economica serve a dispiegare ancor di più relazioni sociali diseguali; il codice delle riforme costituzionali serve a liquidare definitivamente i pesi e i contrappesi che facevano della democrazia qualcosa di assai più complesso di un semplice regime di governo, intercambiabile con gli altri. Ma noi potremo prendere la parola solo se ci occuperemo del “terrorismo” di Hamas, dei “privilegi dei pensionati”, della necessità di “riformare” la Costituzione. La propaganda ci costringe a parlare del dito e ci vieta di discutere della luna.

Sono certo che molti avranno inteso il richiamo marxiano del mio ragionamento. Mai come in questo momento è necessario trasformare il mondo. Ma mai come in questo momento possiamo farlo solo interpretandolo diversamente. Purtroppo non c’è più alcun materialismo dialettico a cui affidarci. Il nostro compito non è solo di trovare forme politiche e organizzative per costruire il consenso, ma di rilanciare la battaglia culturale per l’egemonia. Per questo di fronte a tutto ciò che accade non basta dirci tra noi: organizziamoci. Non serve organizzarci se non troviamo il modo di spiegare, contro ogni evidenza e ogni propaganda. Casa per casa, banco di scuola per banco di scuola, persona per persona. Spiegare e trasformare; trasformare e spiegare. Battere e levare: chissà che alla fine qualcuno ci ascolti e apprezzi la musica.

Gli autori

Sergio Labate

Sergio Labate è professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata. Tra i sui temi di ricerca ci sono il lessico della speranza e dell’utopia nell’età secolarizzata, la filosofia del lavoro, le passioni come fonti dei legami sociali, la difesa della democrazia costituzionale nell’epoca del suo disincanto generalizzato. È stato presidente di Libertà e Giustizia. Tra le sue pubblicazioni: “La regola della speranza. Dialettiche dello sperare” (Cittadella 2012), “Passioni e politica” (scritto insieme a Paul Ginsborg, Einaudi 2016), “La virtù democratica. Un rimedio al populismo” (Salerno editrice 2019).

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3 Comments on “L’egemonia della destra, ovvero la riduzione della cultura a propaganda”

  1. Sono d’accordo su tutto.
    Ma ho addosso uno scoramento tale che non riesco più ad articolare due parole in fila.
    Ho rinunciato a discutere perché per farlo bisogna riconoscere nell’altro un minimo comun denominatore di valori che invece mi appare sempre più assente.
    Ho chiuso sia i profili social che la bocca.
    Tutta la mia stima a lei che ci crede ancora.

    1. Caro Roberto (mi permetto di darti del tu: bello riconoscersi ancora come compagni), non credo sia questione di crederci ancora, sai? La verità è che penso che noi non possiamo permetterci la disperazione. Scriveva Benjamin al sorgere del nazismo: “È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza”. Ecco, condivido con te lo scoramento e penso non basti più l’ottimismo della volontà. Ciò che resta è l’esigenza assoluta di sperare per i disperati. Ma appunto: noi non possiamo permetterci di disperare, per esigenza di giustizia nei confronti di coloro che non possono fare altro che disperare.
      Grazie ancora dell’interlocuzione.

  2. Caro Sergio,
    stima a maggior ragione per l’imperativo di sperare per i disperati.
    Mi rendo conto solo ora che il mio commento è un ossimoro: dico di stare zitto. Perché zitto non ci so stare.
    Grazie per avermi ascoltato.

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