“Ben scavato vecchia talpa” – La piazza di Roma

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Ben scavato

“Ben scavato vecchia talpa!”, si potrebbe dire della manifestazione a Roma dello scorso sabato. Ben otto anni or sono, nel marzo del 2015, Maurizio Landini, allora Segretario generale della FIOM, aveva lanciato l’idea/proposta di una “coalizione sociale” che raccogliesse, in un unico fronte, tutto ciò che nella società resisteva al tentativo di riduzione dei diritti sociali e di cittadinanza (si era a ridosso del famigerato Jobs Act renziano). Obbiettivo dichiarato, quello di “unire tutto ciò che stanno dividendo, … mettendo insieme tutte le forme di lavoro, non solo quello salariato”. Ebbene, quella che si è materializzata ora nei due enormi cortei partiti da Piazza della Repubblica e da Piazzale Partigiani confluiti in una Piazza San Giovanni che non riusciva a contenere tutti, è esattamente quella coalizione: non solo CGIL, le cui bandiere rosse coloravano i due serpentoni, ma tante tantissime sigle (oltre 100) di associazioni, movimenti, gruppi di partecipazione a comporre il mosaico di un’Italia solidale e attiva. Un tessuto che produce non solo valore ma valori, dando corpo e anima a un universo del lavoro che si è disseminato in una molteplicità di forme e figure (non più solo l’operaio di fabbrica), che si temeva avessero smarrito la capacità di aggregarsi e che invece a Roma si sono rivelate convergenti e dialoganti  attraverso il comune linguaggio della Costituzione.

Ben scavato

Anche il nome scelto per la giornata, La via maestra, richiama un percorso lungo un decennio. E’ lo stesso che esattamente 10 anni fa, nell’ottobre del 2013, apriva un altro grande corteo a Roma, convocato anche allora da una costellazione forte di sigle e di nomi: Stefano Rodotà, in primis, già sofferente ma indomabile, e poi Lorenza Carlassarre, Gustavo Zagrebelsky, don Luigi Ciotti, oltre all’immancabile Landini. Il documento programmatico che portava le loro cinque firme si apriva così: “Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione”. Sfilammo allora a decine di migliaia, per fermare l’assalto alla Costituzione proveniente da una pseudo-sinistra che aveva smarrito il senso del proprio esistere e da una convergente destra a geometria variabile, fino a Piazza del popolo. Sedeva allora a Palazzo Chigi il governo “di larghe intese” imposto d’imperio dal Presidente Napolitano appena rieletto e guidato da Enrico Letta. Pochi giorni prima, il 10 settembre, quella brutta ammucchiata aveva approvato a larga maggioranza (397 sì, 132 no, con voto favorevole anche di lega Nord e Fratelli d’Italia) il ddl costituzionale sulla realizzazione del comitato bicamerale di 40 parlamentari volto a riformare la seconda parte della Costituzione in senso centralistico e autoritario. Di qui l’allarme di Rodotà e degli  altri costituzionalisti, capaci di annusare da lontano i sintomi di una deriva di fatto presidenzialista, volta a blindare i livelli istituzionali rispetto alle spinte dal basso di una società in crescente sofferenza. Come disse Stefano da quel palco, a quella piazza, quello contro cui si era lì per resistervi era  “la modifica della forma di Governo in una maniera che esalta la personalizzazione con una curvatura tendenzialmente autoritaria di questo paese” e che mira a soffocare la domanda di rispetto dei diritti sociali primari affermati dalla Costituzione, salute, istruzione, dignità del lavoro, eguaglianza.

Era, lo ripeto, l’autunno del 2013, esattamente dieci anni fa. Poi sarebbe venuta, ad accentuare l’aggressione all’architettura giuridico istituzionale e al sistema lavoristico dei diritti costituzionalmente sanciti, la pesante stagione renziana col suo tentativo di spallata alla Seconda parte della Carta, fortunatamente colpito e affondato dal Referendum del 4 dicembre 2016, e con la controriforma purtroppo diventata legge del Jobs Act. Ora, nel riemergere praticamente negli stessi luoghi, nel cuore di Roma, in piazze gemelle, di una nuova moltitudine in marcia con lo stesso spirito di allora, dopo un decennio di resistenza spesso silenziosa ma non domata, la dice lunga sulla storia politica e sociale di questo Paese. La composizione della maggioranza contro cui si sta in campo è mutata, si è spostata brutalmente a destra. Al posto dell’anima lettiana di un centro sinistra amebiforme ora c’è l’aggressiva presenza di un neofascismo uscito dall’angolo dove era stato confinato per più di un settantennio e divenuto d’un colpo maggioranza relativa. In luogo del gesuitismo tardo-democristiano del Letta nipote ora c’è l’avanguardismo fuori tempo della pasionaria nera della Garbatella. Cambio di stile, ma assai meno di programma. Certo, il controriformismo mal mascherato degli epigoni della sinistra ha lasciato il posto a un esplicita esibizione di sadismo sociale (il rifiuto del salario minimo, la cancellazione del reddito di cittadinanza…). La corrosione sotterranea dei pilastri portanti dell’architettura istituzionale è stata sostituita da impudiche rivendicazioni di palingenesi costituzionale (presidenzialismo, premierato). Ma la sensazione sconvolgente è che il bradisismo che ha terremotato il panorama delle forze politiche e del sistema dei partiti ci consegni in realtà un continuiamo dei progetti di fondo sconcertante. Sintomo, potremmo dire, di quanto quel deep state che lavora nel sommerso, e l’operare dei grandi poteri globali che muovono dal cielo dell’ordine internazionale, tengano in realtà ben dritta la barra del loro timone. E lavorino alacremente a farci approdare sulle secche di un ordinamento post-costituzionale e post-democratico che sancisca la definitiva vittoria dei più forti.

Ben scavato

Per questo il pieno successo della mobilitazione di sabato –questa “Via maestra – Due” -, è così importante. Solo l’immane tragedia consumata al confine tra Gaza e Israele ha potuto confinarla in secondo piano nell’universo mediatico. Ma il suo rilievo, nell’orizzonte desolato dell’attuale momento, rimane indiscusso. Oltre 100.000 persone, forse 150 o 200.000, capaci di mettersi in cammino dopo anni di logoramento, frammentazione, disillusioni, tradimenti, è un segnale di vita potente. Come potente è l’amalgama che la piazza ha rivelato, lavoro e volontariato, giovani e anziani, donne e uomini, le voci fresche delle ragazze e dei ragazzi che piantano le tende intorno ai campus per rivendicare il diritto all’istruzione, le voci più affaticate ma non meno forti degli operai di fabbrica, infermiere e operatori sanitari riemersi dall’emergenza della pandemia a denunciare le spaventose carenze del sistema ospedaliero, insegnanti, militanti ambientalisti, occpupati nei servizi e in quella terra sconsolata delle logistica dove lo sfruttamento è feroce, migranti e addetti all’accoglienza, con tante voci, idiomi, dialetti, ma con un unico riferimento a quel testo che definisce la “via maestra”. Sono la vera “terza forza”, capace di fare la differenza nella crisi della politica e dei partiti. Dicono che nessuno può appropriarsi della sfera pubblica senza fare i conti con quello zoccolo duro del Paese che non si lascia incantare dalla retorica, che proprio perché parte fondamentale della Nazione rifiuta il bolso nazionalismo, che vuole la pace nella giustizia e che sa che non c’è giustizia senza pace. Sono l’unica luce di speranza, nel buio della notte che siamo attraversando.

Gli autori

Marco Revelli

E' titolare delle cattedre di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", si è occupato tra l'altro dell'analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della "cultura di destra" e, più in genere, delle forme politiche del Novecento e dell'"Oltre-novecento". La sua opera più recente: "Populismo 2.0". È coautore con Scipione Guarracino e Peppino Ortoleva di uno dei più diffusi manuali scolastici di storia moderna e contemporanea (Bruno Mondadori, 1ª ed. 1993).

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