Ma cosa pensa davvero il Pd?

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Il problema fondamentale del Pd è la sua frammentazione interna, la sua “balcanizzazione”? È una tesi sostenuta da molti: e cioè che a zavorrare il Pd e la sua azione di opposizione al Governo non sia la mancanza di chiarezza sulla linea politica da seguire, bensì il fatto che le fazioni in cui il partito è lacerato passino il tempo a farsi reciprocamente la guerra.

Ora, se è indubbio che la rissosità interna, frutto dell’amalgama forzato di tante componenti eterogenee, costituisce un grave limite per l’efficacia dell’azione politica del Pd, si può dubitare che sia questo il problema fondamentale di quel partito. O, almeno, che lo sia agli occhi dei tanti elettori che negli anni hanno smesso di votarlo, sempre più andando a ingrossare le fila degli astenuti dal voto o nel voto, e che sono, in parte, tornati a far sentire la propria voce in occasione dell’elezione della nuova segretaria, sconfessando il partito. Forse, proprio il fatto che l’elezione delle primarie abbia ribaltato la decisione degli apparati interni significa che alla base delle difficoltà della nuova dirigenza del Pd si collocano questioni di contenuto. Questioni così profonde la cui persistenza lascia sconcertata anche una parte di coloro che avevano salutato con un’apertura di credito il ricambio nella segreteria. Prendiamo quattro questioni-chiave nella congiuntura politica attuale.

Prima questione: lo sviamento dei fondi del Pnrr a favore della produzione di armi e munizioni (vale a dire, l’anteposizione della guerra a qualsiasi altra priorità politica). Qual è la posizione del Pd? Quella contraria espressa nel Parlamento italiano o quella favorevole assunta nel Parlamento europeo? Da potenziale elettore – lo dico brutalmente – il mio interesse per le logiche di posizionamento tattico interno alla famiglia dei socialisti europei è pari a zero. Quel che m’interessa sapere è qual è la posizione di un partito che si presenterà alle prossime elezioni europee su una questione – la guerra in Ucraina – da cui dipendono i destini dell’Europa. Ebbene, quale sia questa posizione non è dato saperlo: il Pd ha sostenuto una cosa e il suo esatto opposto (https://volerelaluna.it/commenti/2023/07/17/i-giochi-di-prestigio-di-elly-schlein-e-il-rinnovamento-mancato-del-pd/). Votarlo, significa rilasciare alla sua dirigenza una delega in bianco. Perché mai una persona che vorrebbe realizzata l’una o l’altra posizione dovrebbe farlo?

Seconda questione: il finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Sul punto il Pd ha recentemente assunto una posizione netta: «destinare almeno il 7,5% del Pil al Fondo sanitario nazionale», contro il 6,2% attualmente previsto dal Def. Finalmente, verrebbe da dire. Ma, anche qui, è difficile evitare di porsi una domanda. Chi ha deciso la riduzione del finanziamento per la salute al 6,2% del Pil contro cui giustamente si scaglia oggi il Pd? L’attuale Governo Meloni con il ministro Schillaci? Purtroppo, no. A farlo è stato l’ex Governo Draghi, sostenuto dal Pd, con il ministro Speranza recentemente riaccolto nel partito da Elly Schlein. A cosa credere, dunque? Alle parole pronunciate dai banchi dell’opposizione o alle azioni compiute dai palazzi del Governo? Ambiguità sul punto non sono ammissibili. Se il Pd vuole essere credibile nelle promesse elargite dall’opposizione deve prendere apertamente le distanze dalle scelte compiute quando ha avuto responsabilità di governo.

Terza questione: il fisco, per il quale vale un discorso analogo a quello appena svolto per la sanità. È di questi giorni l’ottima proposta del partito rivolta alla ricostruzione della progressività fiscale: rifiuto della flat tax, tassazione omogenea dei redditi da capitale, lotta all’evasione e, soprattutto, redistribuzione del peso del carico fiscale a vantaggio delle fasce più deboli. Il che significa: aumentare le tasse sul reddito ai ricchi e abbassarle ai poveri. Peccato che solo pochi mesi fa, dagli scranni del Governo Draghi e dalle fila della maggioranza che lo sosteneva, il Pd sia stato tra i coautori dell’attacco alla progressività compiuto con la riduzione degli scaglioni da cinque a quattro (e, cioè, con la riduzione delle imposte a carico dei più ricchi). Qual è, dunque, la posizione del partito sul sistema tributario? Quella che emerge dalle parole di oggi o quella realizzata nei fatti di ieri?

Quarta questione, quella alla base dell’ultima rissa: l’autonomia differenziata. Benissimo venga, naturalmente, la manifestazione di Napoli dei giorni scorsi. Ma, di nuovo, si tratta di una presa di posizione credibile? Perché lo sia il Pd non può continuare a eludere la questione dell’origine dell’autonomia differenziata. Il cuore del problema è Calderoli? Sappiamo tutti che non è così. Calderoli è solo l’ultimo arrivato. A precederlo è stato un insieme di elementi che muove dalla riforma del Titolo V realizzata dall’Ulivo nel 2001 (la Costituzione del 1948 non prevedeva l’autonomia differenziata), prosegue con lo sdoganamento delle provocazioni di Veneto e Lombardia grazie alla richiesta di differenziazione dell’Emilia Romagna guidata dal Pd (e con ai vertici, in qualità di vicepresidente, la stessa Elly Schlein) e giunge a compimento formale con le pre-intese firmate, per conto dello Stato, dal governo Gentiloni (una sorta di monocolore Pd) nel febbraio 2018. La segretaria del Pd vuole convincerci della serietà della sua presa di posizione odierna? In questo caso ha la possibilità di farlo senza che residui alcuna ambiguità: prenda pubblicamente posizione, a nome del partito, chiedendo all’Emilia Romagna di rompere l’asse che attualmente la lega alle leghiste Veneto e Lombardia e di rinunciare a ogni richiesta di differenziazione. Schierarsi contro il regionalismo differenziato nel contempo alimentandolo con le richieste provenienti dalle regioni che si governano (anche Campania, Puglia e Toscana hanno chiesto di avviare le trattative) è solo l’ennesima ambiguità che scredita il Pd e, inevitabilmente, offre alimento alla rissa che lo squassa dall’interno.

Gli autori

Francesco Pallante

Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Torino. Tra i suoi temi di ricerca: il fondamento di validità delle costituzioni, il rapporto tra diritti sociali e vincoli finanziari, l’autonomia regionale. In vista del referendum costituzionale del 2016 ha collaborato con Gustavo Zagrebelsky alla scrittura di "Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali" (Laterza 2016). Da ultimo, ha pubblicato "Contro la democrazia diretta" (Einaudi 2020) e "Elogio delle tasse" (Edizioni Gruppo Abele 2021). Collabora con «il manifesto».

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One Comment on “Ma cosa pensa davvero il Pd?”

  1. È a conoscenza la Schlein del fatto che il Comitato ER contro ogni autonomia ha promosso una LIP regionale, appena ammessa dalla Consulta di Garanzia dello Statuto, con la quale chiede l’interruzione del percorso intrapreso diretto ad acquisire maggiori forme di autonomia ed il ritiro delle pre-intese negoziate da Bonaccini?
    Se la Segrataria del PD vuole davvero invertire la tendenza ed abbandonare il progetto secessionista delle regioni leghiste Veneto e Lombardia, approfitti della nostra LIP, la sostenga e dia così un forte ed incisivo messaggio politico non solo al suo partito ma anche alla maggioranza di governo ed ai cittadini tutti.

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