Guardare negli occhi il colore della sconfitta

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È una congiuntura molto difficile quella che fiacca le forze delle sinistre radicali o moderate in Europa. La coincidenza della caduta del Pd al ballottaggio con il tracollo della sinistra spagnola, preceduto dalle galoppate della destra radicale nei paesi nordici e dal declino della sinistra greca, mostra che si tratta di un ciclo politico europeo che colpisce al cuore le forme del progetto politico della sinistra.

La destra radicale che espugna un paese rilevante come l’Italia conquista un vantaggio strategico di grande rilevanza che incrina rapporti di forza, equilibri nella vecchia Europa. Quello che colpisce dinanzi alla salita al potere della destra post-fascista è l’assenza di una riflessione sulle ragioni e sulle implicazioni della sconfitta di settembre. Dal Pd nessuna prova di spiegazione della tragedia elettorale consumata a cent’anni esatti dalla marcia su Roma, solo una poco rassicurante volontà di oblio.

Un partito alle corde, invece di cogliere le ragioni molteplici del declino per combatterle, si affida al viaggio della speranza sulla scia di una leadership così nuova che neppure apparteneva al partito. La rigenerazione immediata è collegata alla promessa di una leadership esterna alla macchina e per questo spendibile nel mercato elettorale come una creatura che tira nel gradimento in quanto molto nuova nello spazio politico fluttuante. Non è la radicalizzazione, che secondo i critici sospinge nei lidi di una sinistra-sinistra, il vero limite del Pd. Semmai pesa il calcolo spregiudicato dei vecchi protagonisti dei caminetti delle correnti che estraggono dal cilindro un volto di una leadership irregolare per cancellare le responsabilità del settembre nero e conservare nell’onda del nuovo dei margini di manovra e di influenza. Il problema più rilevante per il Pd è la scelta di accontentarsi di una enfasi verbale e comunicativa cui non corrisponde alcuna azione politica radicale come condizione per rendere credibile le nuove parole. Un radicalismo del linguaggio, senza azioni di lotta che affondano le radici nella società, non può però invertire il tramonto proprio perché il partito non ha più “barbe e corrispondenze” nei territori.

Bisogna avere la forza di vedere da vicino il colore della sconfitta. Non esorcizzarla per effettuare il più classico dei rivolgimenti per cui tutto cambi attorno ad una leadership nuovissima perché poi nulla in sostanza venga toccato. In nome del nuovo, è stato creato un deserto organizzativo e l’hanno battezzato leadership forte che può affidare i galloni a esterni, non iscritti. La sua forza virtuale è misurata nei sondaggi, e al campione statistico sempre più non corrispondono espressioni territoriali afferrabili.

Su queste basi di rimozione delle cause del declino, è definitivamente appassita la tradizione di un Pd più competitivo nelle elezioni amministrative, in ragione della sua dotazione di classi dirigenti più riconosciute e di simboli antichi del radicamento e del buon governo. Il suicidio assurdo di settembre, imputabile alla rinuncia preventiva alle alleanze per battere la destra radicale, è legato anche al ruolo di interdizione svolto da una sorta di “metapartito americano” che per ragioni di campo esige l’obbedienza a un ferreo imperativo atlantico.

Sulla guerra, e non solo in Italia, le sinistre (dai verdi tedeschi, alle socialdemocrazie nordiche, a Podemos) hanno adottato il monito di Wittgenstein: ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. La sottovalutazione dell’impatto della guerra nelle paure, nelle psicologie di massa è però clamorosa. Una sinistra afona rispetto alla escalation bellica (quando non si dichiara pronta nei suoi campioni nordici a suonare il piffero della vittoria finale con l’invio diretto di truppe oltre che di armamenti) si arrende mestamente alla mutazione genetica delle culture che sono alla base della dimensione europea.

Le paure dinanzi alla normalizzazione dell’immagine di morte violenta, la guerra con i suoi costi alimentano chiusure, simbologie nazionaliste. Per impedire un evidente scivolamento a destra delle opinioni pubbliche, le formazioni progressiste devono ricercare risposte convincenti di pace, e quindi lavorare alla soluzione politica del conflitto che richiede il coinvolgimento di attori che scavalcano la singola nazione. Possibile che i socialisti e democratici europei non abbiano ancora messo in agenda un’occasione di riflessione comune e di iniziativa incisiva sulla evidente crisi della offerta politica della sinistra nel vecchio continente?

Gli autori

Michele Prospero

Michele Prospero, professore di filosofia del diritto nell’Università della Sapienza di Roma, studia, in particolare, il sistema istituzionale italiano e il pensiero politico della sinistra. Autore di numerosi saggi collabora, tra l’altro, con “il manifesto”.

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