L’Italia ripudia il conflitto

image_pdfimage_print

Avevo immaginato di cominciare in questo modo: «il mondo non ribolle soltanto di guerre (gli ultimi dati in mio possesso elencano circa 170 conflitti armati in corso), ma ribolle anche di proteste». Poi mi son reso conto che sarebbe stato nient’altro che un artificio retorico effetto di un’evidente dissonanza cognitiva. Che il mondo sia pieno di guerre è un dato tanto inoppugnabile quanto rimosso: lo era prima e a maggior ragione lo è adesso. La guerra che è tornata al centro della scena è una sola, la rimozione di tutte le altre persiste incessante. Dunque sì, il mondo è pieno di guerre ma l’opinione pubblica occidentale tende a dimenticarsene. Al contrario, che questo sia un periodo pieno di proteste è un dato che solo la nostra arsura politica può intravvedere. Certo, cominciamo a vederle e ci sembra che la loro contemporaneità valga come indizio della loro diffusione. Temo non sia così e che le proteste siano ancora troppo poche così come le guerre sono ancora troppe.

Alla fine di tutto questo ragionamento, forse riuscirò a spiegare perché il nesso quantitativo tra guerre e proteste non mi sembra un semplice dato empirico e ha un significato ben più profondo, specie per il “caso italiano”. Ma il mio intento è molto più semplice e temo sia condiviso da molti dei lettori che continuano ostinatamente a “volere la luna”. Osservando da questa dolente particella di mondo chiamata Italia proteste così efficaci come quelle in Francia e in Israele, siamo in tanti a precipitare in uno stato d’animo di depressione politica, non capendo come tutto ciò sia possibile altrove ma non possa neanche immaginarsi da noi. Tanto più che, a ben guardare, le cause politiche delle proteste in corso che ho citato (ve ne sono anche altre, ma mi limito a questi due esempi) dispensano elementi di analogia con la nostra situazione. In Francia il fuoco è attizzato dalla “questione sociale” che non solo riprende campo ma descrive l’ostinata resistenza da parte di certa tradizione politica postmoderna ad accorgersi dell’insostenibilità di una società in cui il prezzo delle diseguaglianze è tutto sulle spalle di coloro che ne subiscono gli effetti. Quel che i “postmoderni” non capiscono è che non si tratta di cifre (62 o 64 anni) ma di classi. Il Welfare è il progetto politico tramite cui la modernità riconosceva che l’uguaglianza – e il suo correlato negativo, la diseguaglianza – non era semplice questione contabile, ma aveva a che vedere con le classi e le stratificazioni sociali. I politici postmoderni (o neoliberali, chiamateli come volete) pensano invece di ridurre la questione a una semplice logica contabile disinteressandosi delle conseguenze stratificate socialmente. Per Macron e i suoi epigoni è del tutto normale che il costo dei privilegi venga pagato innanzitutto da coloro che non hanno privilegi. È questa la questione sociale che fa schiumare di rabbia quando “si toccano le pensioni”: letteralmente la rabbia dei poveri che si trovano a dover pagare per i privilegi immutabili dei ricchi. Ma questa crisi sociale che sta animando la Francia non ci è estranea: essa riproduce il quadro d’insieme in cui l’Italia versa da quando anche da noi si è cominciato col toccare le pensioni in forma iniqua e si è poi proseguito togliendo diritti ai lavoratori. Non ditemi dunque che la mia depressione politica non ha delle buone ragioni: perché a parità di crisi sociale lì si fanno le barricate mentre qui si vota Meloni?

La faccenda si aggrava ulteriormente se pensiamo alla protesta in Israele. Paese diversissimo da noi ma che scende in piazza per difendere i meccanismi elementari delle democrazie liberali. Con un riflesso protettivo nei confronti delle forme stesse della democrazia che è, in un certo modo, analogo alla rabbia che Macron ha provocato scavalcando l’Assemblea nazionale (autogol pazzesco: figlio del narcisismo dei nuovi leader che tendono a identificare la democrazia con l’egocrazia). Ecco: noi vogliamo farci mancare anche questo? Direi proprio di no: dal momento che siamo di fronte a delle riforme – a partire dall’autonomia differenziata fino al presidenzialismo – che modificheranno in senso diseguale e autoritario proprio quella forma della democrazia per cui in Israele persino i militari scendono in piazza.

Sia sull’accentuazione dei conflitti sociali sia sulla torsione autoritaria delle forme della democrazia non siamo certo messi meglio di Francia e Israele. Eppure di fronte a tutto ciò il nostro immobilismo è plateale tanto quanto la loro mobilitazione. Non vedo molte soluzioni: o ci rassegniamo ciascuno alla propria depressione oppure troviamo il modo di capire perché ciò che avviene da altre parti non accade neanche lontanamente da queste. Ma dobbiamo forse evitare alcuni pregiudizi.

In questi giorni ho letto tante diagnosi che spiegherebbero questa “anomalia italiana”. Alcuni – certamente i più colti – hanno buon gioco nel ricordare che il senso di appartenenza allo Stato che anima Francia e Israele – anche se per motivi ovviamente diversissimi tra loro – sia incomparabile con quel senso piuttosto annacquato che appartiene alla storia italiana. C’è poi chi sostiene che la responsabilità della nostra incapacità di attivarci sia legata alla sfiducia nei confronti della politica. Siamo così disperati da esserci rassegnati al fatto che se anche qualcuno urla non ci sarà nessuno ad ascoltare: non c’è opposizione perché non c’è politica. Per altri invece la responsabilità è della implosione della società civile, incapace dopo la grande stagione antiberlusconiana di mettersi insieme e di trovare sigle – a partire da quelle sindacali che in Italia invece di organizzare proteste cedono alla tentazione di onorare pubblicamente la presidentessa postfascista – con una reputazione e un carisma in grado di renderle unitive e non divisive: non c’è opposizione perché non c’è più società.

Tutte queste ipotesi hanno a mio avviso il pregio di essere vere, ma corrono il rischio di essere parziali. Se dovessi dire la mia a proposito di questa domanda così urgente – perché pur essendo potenzialmente nelle stesse condizioni di conflitto sociale e democratico non riusciamo non dico a organizzare ma addirittura a immaginare delle forme imponenti di protesta? – darei una duplice risposta.

La prima è che abbiamo smesso di credere che tra politica e società vi sia una virtuosa contiguità, come dovrebbe avvenire nelle democrazie compiute. Non crediamo più che lo spazio del potere sia davvero contendibile o che si possa liberare da coloro che lo occupano, restando potenzialmente vuoto. Se la politica non è un luogo contendibile da tutti, sarà inutile per tutti scendere in piazza, mobilitarsi, persino votare in fondo. Ho sempre ammirato che in altri paesi – a partire dai nostri vicini francesi – la società sembra star sempre avanti ai politici e proprio per questo essere in grado di tenerli sulle spine. Ma ormai non è più questione di un ritardo o di un avanzamento. Non è che la società in Italia è più indietro dei suoi politici. Semplicemente si è consumato come un silenzioso divorzio e ora società e politica vivono da separati in casa (una casa piuttosto grande, coincidendo con un’intera nazione).

La seconda è una conseguenza diretta di questa alleanza interrotta tra società e politica. Si potrebbe definire la reciproca frattura tra l’istituzione e il conflitto. Come se dessimo per scontato ormai che tutto ciò che ha diritto a situarsi nel luogo delle istituzioni possa farlo solo a condizione di avere espulso da sé il conflitto. Come se avessimo voluto dimenticare che in una democrazia sono molto rare le forme di istituzionalizzazione che non siano l’effetto di azioni conflittuali. Ma questa frattura si può diagnosticare anche dal punto di vista delle principali esperienze di conflitto. A un certo punto – questo punto preciso risale probabilmente al trauma di Genova 2001 – ci siamo convinti che una delle condizioni che assicurasse circa la buona fede del conflitto fosse proprio il suo risoluto rifiuto di ogni mediazione con le istituzioni o con la pretesa dell’istituzionalizzazione. Che il buon conflitto dovesse per essere tale manifestarsi come destituente, non puntando a modificare gli equilibri istituzionali ma limitandosi a disprezzarli, come se da essi non dipendessero le nostre vite singolari e concrete. L’effetto perverso di questa deistituzionalizzazione del conflitto è stata l’esplosione dell’istituzionalizzazione della guerra. Ecco spiegato il nesso iniziale tra la guerra e la protesta. L’Italia è uno strano paese che si scandalizza se un prestigioso muro viene imbrattato con una vernice lavabile, ma ritiene che fare la guerra sia inoppugnabile e non si debba discutere. L’Italia non ripudia la guerra, ripudia i conflitti. Dimenticando così non solo il dettato costituzionale, ma anche la saggezza nonviolenta, secondo cui la guerra non è che l’effetto di un conflitto rimosso o rimasto irrisolto. Questo paese ha piuttosto urgente bisogno di essere più conflittuale e meno bellicista, di istituzionalizzare il conflitto e de-istituzionalizzare la guerra.

Gli autori

Sergio Labate

Sergio Labate è professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata. Tra i sui temi di ricerca ci sono il lessico della speranza e dell’utopia nell’età secolarizzata, la filosofia del lavoro, le passioni come fonti dei legami sociali, la difesa della democrazia costituzionale nell’epoca del suo disincanto generalizzato. È stato presidente di Libertà e Giustizia. Tra le sue pubblicazioni: “La regola della speranza. Dialettiche dello sperare” (Cittadella 2012), “Passioni e politica” (scritto insieme a Paul Ginsborg, Einaudi 2016), “La virtù democratica. Un rimedio al populismo” (Salerno editrice 2019).

Guarda gli altri post di: