Elezioni e dintorni: uno scenario post-apocalittico

image_pdfimage_print

In letteratura si distingue tra scenario apocalittico e post-apocalittico. Ho l’impressione che se non facciamo agire tale distinzione poco comprendiamo degli eventi elettorali che accadono sulla scena politica italiana e che, mi pare, ci lasciano ormai nell’ineffabilità. L’apocalisse è già avvenuta, e non poco tempo fa. Ha avuto modo di sedimentare ormai; di trasformare il paesaggio, le aspettative, i linguaggi. Di plasmare mostruosamente le forme della politica. E ciò vuol dire che non c’è più da svolgere alcuna funzione teologico politica. È troppo tardi per ogni potere che frena. È uno dei grandi contrattempi della sinistra: essersi fatta sedurre dai profeti del katechon, mentre l’apocalisse era già qui, indisturbata.

È così che, ansiosi di anticipare l’apocalisse, sappiamo dire così poco dello scenario post-apocalittico che ci è dato abitare. Non è un deserto. È abitato, ma dai morti. Da coloro che hanno causato l’apocalisse e si sono costruiti gli abitacoli per sopravvivere alla rovina da loro propiziata, come nella scena finale di Don’t look up. I morti che sopravvivono alla propria morte. Che prosperano e si raccontano di essere vivi, magari brindando a una percentuale elettorale che è maggiore di altre occasioni solo perché è maggiore l’astensionismo. E se anche non brindano, ci riproveranno. Ancora e ancora. Lo scenario post-apocalittico prevede che i morti non accettino di essere tali. Ma accanto ai morti, la post-apocalisse è piena di vivi. Di vivi che non vogliono tornare a casa, che si ritraggono. Almeno fin quando ci saranno ancora i morti. Sono sempre di più, ogni volta di più. Sono vivi, ma non sono qui. Dentro quello spazio che definiamo democrazia. I morti abitano il mondo che i vivi disabitano. I vivi, coloro che si astengono. Quelli che si sentono sequestrati dai morti e ne hanno definitivamente proclamato la condanna a morte: voi morti, nonostante ci proviate ogni volta di nuovo, non potere risorgere. Voi morti siete morti, anche se non vi rassegnate. Voi sequestrate il mondo e noi ci ritiriamo. O noi o voi. Non c’è alcuna compresenza di morti e viventi nello scenario post-apocalittico. I morti contro i vivi. Sarà dunque questo il conflitto strutturale della politica post-apocalittica? I morti che fanno i vivi e i vivi che si fingono morti? Può darsi. Ma con due avvertenze.

La prima è che i vivi che si ritirano dalla democrazia lasciando che si trasformi nel regno delle anime morte sono anche troppo vivi. La loro vita è interdetta da ogni rappresentanza, ma è fatta di sangue, merda, dolore, oppressione, sfruttamento, diritti negati, abusi di potere, lavori poveri. Nello scenario post-apocalittico i morti non vivono al posto dei vivi, i morti sottraggono ai vivi la possibilità che la loro vita possa essere modificata dal discorso pubblico. E dove non può più arrivare il discorso pubblico, non rimane forse che il silenzio pubblico. I morti non vivono, ma la vita nascosta si moltiplica e non si recide, come la ginestra leopardiana. Questa vita oppressa dei vivi è un principio di realtà: mostra senza tema di smentita l’autoreferenzialità della politica che li ha scacciati e ha trasformato la democrazia in un regno di morti. Chi si astiene dice: voi siete morti, eppure la vita non è finita. E la vita che resta è disossata dai conflitti materiali e sociali. Non dai baci di Sanremo, ma da una società che scivola sempre di più verso la civiltà selvaggia del capitalismo originario, che non aveva freni inibitori né limiti del diritto o della democrazia.

La seconda è che quei vivi non si rassegnano all’unica forma di vita imposta dentro la società post-apocalittica. Il deserto di democrazia che ha occupato la nostra democrazia. La vera apocalisse, il neoliberismo. Non votano i morti, ma preferiscono stare nascosti piuttosto che votare i vincenti, gli zelanti esecutori del monoteismo neoliberista. Gli zelanti poliziotti dell’apocalisse. Sono nascosti, attendono. Che nel deserto spunti un segno, un fiore, una goccia d’acqua, un po’ di vento. Diffidano dei vivi che dominano il mondo e dei morti che per sopravvivere a se stessi preferiscono che il mondo continui a crepare. Non sono tutti comunisti, no. Nemmeno di sinistra, probabilmente. Alcuni di loro sono disinteressati, certamente. Ma molti di loro sono impoveriti, spaventati e vorrebbero solo poter uscire dai loro rifugi post-apocalittici per respirare il profumo di quella grande utopia che è stata la democrazia liberale. Un posto che sapeva di vita, non di morte. Di cose che possono cambiare, non che restano imbalsamate e uguali a se stesse. I morti non salveranno più i vivi, nonostante la loro presunzione. Solo i vivi salveranno se stessi, se soltanto fossimo in grado di fargli spazio.

Gli autori

Sergio Labate

Sergio Labate è professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata. Tra i sui temi di ricerca ci sono il lessico della speranza e dell’utopia nell’età secolarizzata, la filosofia del lavoro, le passioni come fonti dei legami sociali, la difesa della democrazia costituzionale nell’epoca del suo disincanto generalizzato. È stato presidente di Libertà e Giustizia. Tra le sue pubblicazioni: “La regola della speranza. Dialettiche dello sperare” (Cittadella 2012), “Passioni e politica” (scritto insieme a Paul Ginsborg, Einaudi 2016), “La virtù democratica. Un rimedio al populismo” (Salerno editrice 2019).

Guarda gli altri post di:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.