I cosiddetti referendum sulla giustizia escono della scena politica mortificati dal disinteresse degli elettori. Ha votato un italiano su cinque (ancor meno di quanto pronosticato dai sondaggi), con una delle percentuali più basse nella storia dei referendum abrogativi (ben 67 nella storia repubblicana). E la percentuale sarebbe stata ancor più bassa se non ci fosse stato l’anomalo accorpamento tra consultazione referendaria e voto amministrativo in molti comuni anche medio grandi. I sostenitori del referendum si stracciano le vesti (in verità da prima del voto) per la scarsa copertura mediatica lamentando una congiura del silenzio diretta a impedire il raggiungimento del quorum. Si potrebbe discutere a lungo se la scarsa copertura dei media sia stata la causa o l’effetto del diffuso disinteresse nei confronti dei referendum ma, in ogni caso, un numero così esiguo di votanti tronca sul nascere ogni discussione e mostra che le cause dell’insuccesso sono più profonde. Del resto nessuno dubita che se si fosse votato sui referendum per la legalizzazione delle droghe leggere e per l’introduzione dell’“eutanasia legale” (discutibilmente esclusi dalla Corte costituzionale) l’afflusso alle urne sarebbe stato ben maggiore e probabilmente il quorum sarebbe stato raggiunto, mentre oggi non è neppur dato sapere se le richieste di referendum sulla giustizia avessero effettivamente raccolto le 500.000 firme necessarie per l’ammissibilità (avendo i proponenti preferito non depositarle e appoggiarsi sull’iniziativa delle Regioni di centro-destra). L’insuccesso dell’iniziativa referendaria è dunque senza appello e ciò rischia di produrre effetti negativi sul piano generale e su quello specifico. Non è una buona cosa e, prima di chiudere definitivamente questa pagina, si impone almeno una riflessione.
Primo. I referendum abrogativi sono uno strumento complesso e delicato, tanto più in un momento di disaffezione crescente dei cittadini dalla politica. La storia dei 67 referendum intervenuti dall’inizio della Repubblica (di cui solo 39 hanno raggiunto il quorum) è lì a dimostrarlo. Il loro uso eccessivo, improprio (per temi complessi e articolati che mal si prestano ad essere definiti con un sì o con un no) e strumentale (cioè con lo scopo di lanciare messaggi politici generali più che risolvere dilemmi specifici) sta logorando uno strumento che, in passato – nel caso del divorzio, dell’aborto e del nucleare, per ricordare solo i casi più eclatanti – ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della società e della democrazia, anche ribaltando gli orientamenti delle maggioranze parlamentari e integrando utilmente la democrazia rappresentativa. Oggi quella stagione è definitivamente chiusa e lo strumento referendario rischia di perdere efficacia concreta e capacità di mobilitazione. Paradossalmente ciò accade nel momento in cui, a seguito della legge n. 108/2021, la raccolta delle firme a sostegno dei referendum è diventata molto più facile stante la possibilità che essa avvenga attraverso piattaforme elettroniche (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/09/29/i-referendum-digitali-e-il-suicidio-del-parlamento/). Si delinea così uno scenario lunare, caratterizzato da una verosimile crescita del numero dei referendum, tutti destinati a infrangersi contro un quorum irraggiungibile. Su ciò dovrebbe aprirsi, tra i sostenitori dei referendum a prescindere, una riflessione seria che vada oltre la semplice richiesta di un abbassamento del quorum foriero della possibilità (palesemente irrazionale) di abrogazione di leggi approvate da ampie maggioranze parlamentari con il voto di un numero irrisorio (o comunque esiguo) di cittadini.
Secondo. Hanno poco da stare allegri anche i fautori del No e del non voto, che pure oggi cantano (giustamente) vittoria. Il moltiplicarsi dei referendum, infatti, svela, insieme all’avventurismo di chi li invoca per qualunque questione (per l’abolizione del rosso dei semafori e della matematica a scuola, proponeva ironicamente, qualche decennio fa, Il Male), l’inesistenza del Parlamento, incapace di legiferare anche sulle questioni più gravi e urgenti. E il loro insuccesso incentiva ulteriormente l’inerzia della politica. Prendiamo il caso del quesito sulla riduzione della custodia cautelare, certamente il più importante di questa tornata. L’insuccesso referendario metterà una pietra tombale sul tema, almeno nella situazione politica attuale. E non c’è di che rallegrarsene ché la custodia cautelare (anche nella forma delle misure non detentive) è usata nel nostro paese in maniera eccessiva, spesso abnorme e persecutoria. Il referendum è stato attivato in modo strumentale (come dimostra il sostegno di una forza politica come la Lega, che ogni giorno invoca più carcere) e improprio (ché una vittoria del sì avrebbe ridotto le ipotesi di misure cautelari legittimate da pericolosità sociale ma in modo selettivo e disuguale, abolendole per i reati dei colletti bianchi e di alcuni reati seriali ma non anche per quelli, assai meno gravi, tipici del conflitto sociale, come la resistenza a pubblico ufficiale e la violenza privata). Ma il problema dell’eccesso di misure applicate prima della condanna (se mai interverrà) resta e non si vedono all’orizzonte interventi parlamentari utili.
Terzo. Oltre che per la politica, ce n’è anche per la magistratura che oggi, almeno in prevalenza, brinda allo scampato pericolo, arroccandosi ulteriormente nella “cittadella assediata” anziché aprire una stagione propositiva e di confronto con la società capace di scuoterla dall’appiattimento su un esistente inaccettabile che dura da decenni. Limitiamoci ai temi posti dai referendum (non i più importanti per la giustizia ma non privi di rilevanza). Perché non aprirsi a valutazioni esterne sull’operato dei magistrati (antica proposta della sinistra incomprensibilmente abbandonata nel tempo) quando le valutazioni effettuate in via esclusiva dalla corporazione hanno dimostrato e dimostrano ogni giorno di più la propria insufficienza, con una riduzione di credibilità che proietta la sua ombra lunga sulla stessa giurisdizione? E perché rifiutare un confronto serio sul progressivo affermarsi nelle aule dei tribunali della cultura della polizia (veicolata dai pubblici ministeri) mentre si continua a parlare della necessità di preservare una comune cultura della giurisdizione tra giudici e pubblici ministeri senza accorgersi del suo costante deperimento? La soluzione del problema non sta, probabilmente, nell’inasprimento dei limiti (già molto accentuati) per il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa. Ma l’attuale situazione non è sostenibile e richiede una capacità propositiva di cui non c’è traccia in magistratura, magari a partire dall’obbligatorio esercizio iniziale da parte di tutti i neomagistrati di funzioni giudicanti (veicolo possibile – questo sì – di una comune cultura della giurisdizione) e costruendo intorno a questa proposta convergenze e alleanze.
La conclusione è obbligata: la competizione referendaria si è chiusa ingloriosamente per i proponenti e, dato il tenore dei quesiti, è meglio così, ma la fretta di voltar pagina senza coglierne la lezione non può che produrre danni ancora maggiori.
In homepage affresco di M. Wurmster, Castello di Karlstein, Boemia (1362 circa)
22-06-17 venerdì 14:15ca
Diamo per scontato che le proposte di referendum indichino un interesse dei cittadini sulle tematiche prese in considerazione.
Se così fosse i rappresentanti eletti dai suddetti cittadini dovrebbero essere in prima linea sulle tematiche relative.
Non potrebbe essere che che all’approvazione della validità (firme e quant’altro) del referendum, prima della chiamata al voto popolare, il parlamento, una commissione, sia obbligato a dare un giudizio, fare una proposta che possa scongiurarlo. Con tutte le garanzie di eventuale divergenza maggioranza-minoranza messe in evidenza. E permettere ai promotori di dare consenso o rifiutare?